Il giudizio sul diritto alla vita e alla dignità personale ridefinisce i poteri del Giudice delle leggi

  1. Introduzione

 Il diritto alla vita e alla dignità personale davanti alle scelte che coinvolgono i momenti estremi dell’esistenza umana, pone delicati dilemmi e giuridici e etici. Come ha recentemente rilevato Francesco D’Agostino[1]l’essere umano è ontologicamente fragile, la mortalità è una condizione propria dell’uomo che è “essere per la morte” (Heiddeger) e il male del fine vita non è illusione, come pensano invece le grandi religioni orientali. La malattia è problema ineliminabile dell’uomo (gli animali non la percepiscono). Quindi l’esito finale della vita nell’uomo è problema antropologico e come tale va trattato. La medicina Ippocratica aveva un approccio scientifico su questi problemi; superava la dimensione magica. Compito del medico è intervenire sulla alterazione naturale che provoca la malattia, uno squilibrio della nostra identità fisiologica. Il ruolo   del sanitario sta nel correggerlo, attraverso la terapia.

La modernità è costituita anche dall’avvento della scienza come sapere funzionalmente orientato. Ma accanto a ciò si assiste all’affermarsi di una altra tendenza.  La natura viene messa da parte, viene ritenuta una categoria metafisica non assimilabile alla fisica. Si afferma il costruzionismo biologico, nuove categorie si aggiungono a quelle fisiche. Il bios viene ricostruito secondo i desideri umani. Gran parte della medicina si sta facendo suggestionare dal fatto che il compito del medico non è curare ma venire incontro alle esigenze funzionali del paziente, anche davanti alla morte. Il funzionalismo di per sé è neutro ma il medico deve farsi carico di una immagine unitaria di uomo al fine di attribuire alla sua vicenda una dimensione di senso. Fa parte della tendenza attuale, la circostanza che la bioetica è divenuta biogiuridica. Ma l’etica non è giuridicizzabile, il diritto ha soltanto la funzione di assicurare coesione sociale, non può assumere a suoi contenuti principi imposti da valutazioni etiche, diversamente discutibili.

Sulla questione del fine vita, è intervenuta una recente sentenza della Corte Costituzionale, quella sul caso Cappato, (nr. 242 del 22 novembre 2019). Con questo scritto mi propongo di illustrane i contenuti e le sue caratteristiche innovative rispetto alla legislazione e alla giurisprudenza costituzionale sul tema.

  1. Il fatto processuale della sentenza 242 del 2019

La vicenda processuale da cui scaturisce il giudizio di costituzionalità, trae origine dalla vicenda di F.A., il quale nel 2014, a seguito di incidente stradale, era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale permanente. Non era autonomo nella respirazione (necessitando di un respiratore) e nell’alimentazione (veniva nutrito in via intra parietale) ma conservava piene facoltà intellettive. Era sottoposto a spasmi e contrazioni ricorrenti, produttivi di sofferenze molto gravi, non lenibili completamente in via farmacologica. Nel 2016 aveva preso contatto con organizzazioni svizzere di aiuto al suicidio, avendo maturato la decisione di porre fine alla propria vita.

Nello stesso periodo aveva conosciuto Marco Cappato, che poi sarebbe stato imputato nel giudizio a quo, il quale in un primo tempo gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi a sedazione profonda in Italia, ma  avendo F.A. ribadito la propria volontà suicidaria, lo aveva accompagnato in automobile in una clinica svizzera, dove l’ammalato si era dato la morte, premendo con la bocca lo stantuffo di una attrezzatura che aveva, per effetto di questa sua azione, fatto scorrere nelle vene il medicamento mortale. Marco Cappato al ritorno in Italia si era autodenunciato ed era stato tratto a giudizio tanto per aver rafforzato il proposito suicidario di F.A., quanto per averne agevolato la esecuzione ai sensi dell’art. 580 dal c.p. In realtà il Giudice   aveva ritenuto che ricorresse solo l’ipotesi della agevolazione del suicidio, consistente nell’aver accompagnato, F.A. in Svizzera con l’automobile, presso la clinica in cui aveva trovato la morte.

Il Giudice a quo, nella specie la Corte d’Assise di Milano aveva posto alla Corte Costituzionale due quesiti. Col primo si chiedeva che quest’ultima si pronunciasse sulla conformità a Costituzione dell’art. 580 c.p. “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”. Si dubitava della conformità a Costituzione della previsione come reato di qualunque comportamento integrante un aiuto al suicidio indipendentemente dalla volontà dell’interessato (per contrarietà agli art. 2 e 13 primo comma e 117 Cost).

Nel secondo quesito si chiedeva se fosse conforme a Costituzione la stessa norma del codice penale “nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 12 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione”. Si riteneva in questo secondo caso, da parte del Giudice a quo, che vi fosse una violazione degli art. 3, 13, 25, secondo comma e 27 terzo comma Cost., per la irragionevole parificazione, con riguardo alla pena, di fattispecie (istigazione e aiuto al suicidio) che erano ontologicamente differenti.

Il quesito del remittente era dunque oggettivamente ampio in quanto ricomprendente “qualunque forma di aiuto” posto in essere a favore di “qualunque soggetto” laddove fosse conseguenza della esclusiva volontà del destinatario dell’aiuto[2].La Corte risponde al quesito ritenendo di dover individuare una “circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi…..in una persona < (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli>”

 Un anno prima era stata emessa nel medesimo procedimento costituzionale l’ordinanza 207/2018. Nella motivazione della sentenza 242/2019 si prendono le mosse da quest’ultimo provvedimento, con cui si assegnava un termine annuale al legislatore per intervenire nella materia, indicando le principali linee guida da seguire nella introduzione della normativa. Il Giudice delle leggi afferma ora che la perdurante inerzia del legislatore lo porta a ritenere non più sostenibile tale vulnus in ragione del rischio di lesione “dei diritti fondamentali dei singoli”. Nella argomentazione posta a base del dispositivo la Corte esamina le disposizioni introdotte dalla legge 219/2017 in guisa di tertium comparationis che prevedono l’esistenza dell’istituto della sedazione profonda, affermando la irragionevolezza della scelta attuale del legislatore di perseguire penalmente un’attività, che è rivolta agli stessi soggetti destinatari di questa estrema metodica medica e che quindi   miri a realizzare lo stesso risultato, in quelle norme previsto. A dire il vero la sentenza non presenta un parametro costituzionale ben definito. Si oscilla tra il principio di ragionevolezza rappresentato dal riferimento alla legge 219/2017 e il diritto a rifiutare le cure previsto dall’art. 32 della Costituzione.

Non si aderisce alla concezione che ritiene la vita un bene sempre a disposizione del soggetto che ne può liberamente disporre. Ciò si deduce anche dalla circostanza che la Corte abbia ridelineato il thema decidendum, riscrivendo il petitum. Inoltre viene affermata la necessità di non caducare completamente il reato di aiuto al suicidio, ritenendo che la sua permanenza nell’ordinamento sia pure nella forma così ridisegnata, sia ancora indispensabile quale strumento di tutela dei soggetti in condizione di debolezza e vulnerabilità.

 3. La tecnica processuale usata per il tipo di pronuncia. Una invasione di campo?

La sentenza era stata preceduta, come si diceva, dalla ordinanza 207 del 2018, nella quale si auspicava un intervento del legislatore nella vexata materia. La decisione di un anno prima, dichiara la Corte, vi si salda in consecuzione logica, ciò che le distingue è la motivazione nel passare alla definitiva decisione di incostituzionalità. Nell’ordinanza n. 207 la Corte aveva escluso di poter porre rimedio allo stato “al riscontrato vulnus”, tramite una dichiarazione di incostituzionalità “meramente ablativa”. Era però necessario assumere una decisione per il possibile di coinvolgimento di “soggetti in condizione di vulnerabilità”. Si fornivano indicazioni sulla disciplina da introdurre lasciando al legislatore questo compito, poiché ci si muoveva in un ambito di pertinenza della discrezionalità legislativa. Rileva la Corte di non dover utilizzare il meccanismo della doppia pronuncia fatto proprio in casi simili (pronuncia di inammissibilità con monito al legislatore di introdurre la disciplina necessaria per rimuovere il vulnus di disciplina costituzionale, cui segue quindi, in caso di inottemperanza la declaratoria di incostituzionalità).

Il Giudice costituzionale ritiene di poter in questo caso, a fronte dell’inerzia legislativa, essa stessa trarre dalla legge suprema la necessaria disciplina (le c.d. rime obbligate) per cui “L’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve…….prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della  materia”(v.sent.242). Rileva Antonio Ruggeri[3] che “……..o è vero quanto dichiarato la prima volta dal giudice costituzionale, vale a dire che spetta davvero al legislatore (e solo ad esso) far luogo alla scelta tra le varie soluzioni normative astrattamente immaginabili, da compiersi entro un certo termine (del quale, peraltro, è oscuro il titolo in nome del quale è dal giudice  fissato), ed allora non è chiaro cosa mai legittimi in un tempo successivo la Corte a sostituirsi al legislatore stesso……” L’autore critica la sentenza perché supera i ruoli istituzionali dell’assetto dei poteri disegnato dalla Carta Costituzionale quasi che essi abbiano una forza persuasiva e non prescrittiva . E  aggiunge “Non vale obiettare – come pure talvolta si è fatto (e si fa) – che ciò che solo importa è che i diritti costituzionali ne abbiano, al tirar delle somme, un guadagno o, come sia, quel pur parziale appagamento che senza l’intervento dei garanti stessi non potrebbe comunque aversi” poiché conclude “lo snaturamento dei ruoli  istituzionali è un prezzo che l’ordinamento costituzionale non è in grado di pagare, dal momento che ne sarebbero fatalmente contagiati gli stessi diritti, secondo la ispirata intuizione dei rivoluzionari francesi, mirabilmente scolpita nell’art. 16 della Dichiarazione del 1789”.

Di avviso contrario è Alessandro Morelli[4] il quale ritiene che il principio di separazione dei poteri non possa essere inteso in senso assoluto, perché se dovesse ritenersi che esso non è bilanciabile, si dovrebbe ritenere che nessuna deroga allo stesso possa ammettersi, anche quando la conseguenza sarebbe “la totale e definitiva compromissione di diritti fondamentali, determinata (come nel caso che si sta discutendo o in tanti altri in cui la Corte ha finito con lo svolgere un ruolo di supplenza nei confronti del legislatore), dall’inerzia dei poteri dello Stato”. L’autore ribadisce che proprio per questo non è possibile porre una linea di cesura tra Costituzione dei diritti e Costituzione dei poteri, dimensioni correlate. Pur concordando sulla concezione dinamica del rapporto tra poteri e diritti, la posizione non è condivisibile. L’ordinamento consta di un delicato equilibrio di poteri, non si può però accedere a una visione ideologica   della tutela dei diritti fondamentali. La Costituzione disegna un assetto di garanzia dei poteri e dei diritti. Altrimenti dovremmo chiederci, ad esempio, che senso abbia la previsione di una precisa procedura per la revisione costituzionale (art. 138 Cost.), prerogativa del Parlamento, o i limiti dell’interpretazione operata dai Giudici supremi costituzionali. Le forme e i contenuti, soggettivi e oggettivi, di questi e altri istituti sono ripartiti proprio dalle norme sulla Kompetenz – Kompetenz.

 Altresì non ci si nasconde che una siffatta sentenza di accoglimento abbia effetti peculiari nell’ordinamento, che sopravanzano quelli previsti dalla Costituzione (art. 136 Cost.). Bisogna chiedersi, pertanto, quale ne sia il valore. Il suo dictum è suscettibile di ulteriori svolgimenti legislativi oppure il Parlamento deve limitare la propria attività, sulla delicata questione del fine vita, ad una legislazione attuativa? Oppure, al contrario l’organo legislativo può, nella pienezza delle sue prerogative, emanare una disciplina generale sulla materia?

La decisione, allo stato attuale, sembrerebbe posta in deroga alla legge, in quanto all’interno di una norma generale, ridelinea una fattispecie concreta di non punibilità. In questo senso sembrerebbe innovare il diritto oggettivo e quindi individuare una disciplina del caso specifico, sottratta alla generalità ed astrattezza della regola generale prevista dall’art. 580 del cod. pen.

  1. La decisione nel merito.

       4.1 Inesistenza del diritto a porre fine alla propria vita

La Corte non accoglie la tesi del remittente secondo cui nell’ordinamento italiano sarebbe riscontrabile “un generico diritto all’autodeterminazione individuale” che rende sempre non incriminabile l’aiuto al suicidio[5]. Al punto 2.2 della decisione infatti si afferma “la ratio dell’art. 580 cod. pen. può essere agevolmente scorta, alla luce del vigente quadro costituzionale, nella tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”. E ancora si aggiunge al medesimo punto 2.2 “dall’art.2 Cost. – non diversamente dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”. La Corte precisa che un siffatto diritto non può desumersi dall’art. 8 della CEDU (rispetto della   vita privata). Riafferma dunque un principio di civiltà giuridica presente in tutti gli ordinamenti, quello per cui nessun individuo può dare la morte ad un suo simile (divieto dell’omicidio).

4.2 L’obiezione di coscienza e le cure palliative

Rilevante è il punto 6 dei consideranda in diritto, in cui a proposito dell’ obiezione di coscienza, dei sanitari se ne afferma la validità ed efficacia. Dice il Giudice Costituzionale a questo proposito “la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”. Le disposizioni della legge 219/2017 prevedono che il medico anche se è richiesto nella cooperazione a fornire assistenza al suicidio espressa in una Dichiarazione Anticipata di Trattamento può non aderirvi. La sentenza, come si diceva ha accomunato la condizione del paziente che ai sensi della legge 219/2017 intendeva chiedere la sospensione di alcuni trattamenti vitali – nella specie idratazione e nutrizione- (eutanasia per omissione) a quella di chi trovandosi in analoghe condizioni di malattia vuole por fine alla sua vita, tramite un farmaco letale (eutanasia per azione). Le due situazioni mirano ad ottenere la morte; in entrambe i casi il medico può rifiutare la propria cooperazione.

La decisione non impone al Servizio Sanitario Nazionale il dovere di organizzare un servizio pubblico di assistenza al suicidio ma soltanto (punto 5) “di verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”. Ciò attraverso l’intervento di organi collegiali terzi (comitati etici) che dovranno “garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità”. Il compito dei Comitati etici dunque è di verifica e garanzia, rispetto ad una determinazione che solo il paziente può prendere.

Nella sentenza si afferma che “un percorso di cure palliative deve costituire un prerequisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”.

  Senza l’offerta di cure palliative non c’è una effettiva libertà di scelta. La Corte auspica che “l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative” (punto 2.4). Una delle condizioni poste dalla sentenza ai fini della non punibilità del fatto è costituita dalla presenza di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili. Perché la sofferenza fisica o psichica possa definirsi intollerabile occorre che venga realizzato quanto necessario ad alleviarla. Ciò può avvenire solo se al paziente è offerto un adeguato percorso di cure palliative.

  • Gli ulteriori requisiti di non punibilità dell’aiuto al suicidio.

Altro requisito indispensabile, previsto nella decisione in commento è che il proposito suicida si sia formato “autonomamente e liberamente da parte di chi è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, secondo le prescritte modalità degli art. 1 e 2 della L. 219/2017” (punto 2.3 consideranda in diritto). Deve essere esclusa la possibilità che la decisione di porre termine alla propria vita venga presa da persona indicata dal paziente, da lui delegata, da familiari, genitori, rappresentanti, amministratori di sostegno o fiduciari. L’assistenza al suicidio non è scriminata se effettuata sulla base di Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Per la legge 219/2017 queste ultime (ai sensi del suo art. 4 comma 1) vanno prese in considerazione “in previsione di una eventuale futura incapacità di determinarsi”. La sentenza del Giudice di Costituzionalità, invece, impone che l’aspirante suicida, sia sul momento, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

 Infine ulteriori condizioni concorrenti sono che il paziente “sia una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile”. La seconda circostanza è ovvia anche se soggetta a valutazioni di tipo medico; la prima invece, deve ricorrere nella materialità. La sentenza infatti utilizza   l’argomento del tertium comparationis e dell’analogia basata sul raffronto tra la richiesta del malato sottoposto a trattamento di sostegno vitale (che chiede di interromperlo ai sensi della legge 219/2017) e quella del malato, che si trovi nella medesima condizione, e chieda di poter rapidamente porre termine alla propria vita.

  1. Conclusioni

La sentenza opera un delicato bilanciamento tra libertà e dignità umana[6]quest’ultima costituendo un limite all’autodeterminazione della persona, inerendo alla irrinunciabilità della qualità di uomo. La “dignità umana” è strumento attraverso il quale valutare il corretto esercizio dei diritti fondamentali che non possono essere sacrificati al costruzionismo biologico e al funzionalismo scientifico. Si tratta di un super principio della Costituzione che trova espressione positiva in plurime disposizioni della stessa (art. 3, 32, 36, 41, Cost.).

Questa tendenza era stata fatta propria dalla giurisprudenza che interpretava la Costituzione in modo aderente al principio personalistico espresso dall’art. 2.[7]

Il rischio del contrario è come paventa Nicola Colaianni è la normalizzazione del suicidio assistito “percepibile addirittura come imperativo sociale dalle persone anziane e malate” (vedi scritto cit. in nota 7). La Corte Costituzionale italiana ha creato a riguardo alla applicabilità dell’art. 580 una scriminante procedurale, applicabile ex-post, posta in essere per tutelare le persone in condizione di vulnerabilità, ma che comunque limita e circoscrive il principio generale di intangibilità e sacralità della vita umana.

Cesare Augusto Placanica

BIBLIOGRAFIA

F.Bertolini, Valore della libertà, valore della vita, diritto a rinunciare alle cure, diritto di morire, in Rivista AIC, n. 4/2019

M.D’Amico, Il “fine vita” davanti alla Corte Costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n.242 del 2019, in Rivista AIC, n. 4/2019

M.Picchi, Considerazioni a prima lettura sulla sentenza n.242/2019 della Corte Costituzionale, in Osservatoriosullefonti .it, n.3/2019

A.Ridolfi, Un nuovo tipo di doppia pronuncia: la via italiana alla UnverienbarerKlaerung? (Osservazioni su C. Cost.,ord.n.207/2018 e sent. n. 242/2019) in Nomos, n. 3/2019

Cesare Augusto Placanica

[1] Francesco D’Agostino intervento al Convegno “Malattie degenerative e problematiche del fine vita. Aspetti Medici e Bioetici” del 14 febbraio 2020 presso Fondazione Pia Opera Ciccarelli, San Giovanni Lupatoto (Vr) 

[2] Vedi la ricostruzione della vicenda processuale in Fabrizio Politi, La sentenza 242 del 2019 ovvero della rarefazione del parametro costituzionale e della fine delle “rime obbligate”?Un giudizio di ragionevolezza in una questione di costituzionalità eticamente (molto sensibile) in Diritti fondamentali.it Fascicolo 1/2020 del 6 marzo 2020. Rivista on-line

[3] Antonio Ruggeri in Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà luce alla preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019) in www.giustizia insieme.it -2/802, Rivista on line

[4] Alessandro Morelli in La voce del silenzio. La decisione della Corte sull’aiuto al suicidio e il perdurare

dell’inerzia legislativa in Diritti fondamentali.it, fascicolo 1/2020 del 11 marzo 2020. Rivista on-line

[5] Vedi Giovanna Razzano in Nessun diritto di assistenza e priorità per le cure palliative, ma la Corte Costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama<terapia> l’aiuto al suicidio,in Diritti fondamentali.it, fasc. 1/2020 del 3 marzo 2020, Rivista on- line

[6] V. Francesco Rinaldi in Un totenrecht o diritto di non soffrire in Diritti Fondamentali.it Fascicolo 1/2020 del 24 gennaio 2020, Rivista on-line

[7] Ciò non è proprio di tutte le Corti Costituzionali, si veda sul punto Nicola Colaianni in “A Chiare lettere-editoriali in L’aiuto al suicidio tra Corte Costituzionale 242/2019 e BundesVerfassungsgericht 26 febbraio 2020 in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Fascicolo 6 del 2020, Rivista on-line.

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