Nel contesto di una trasformazione delle percezioni collettive rispetto alla “questione rifugiati”, abbiamo assistito in anni recenti all’affermarsi di un clima politico sempre più apertamente ostile ai migranti, concretizzatosi in politiche di ingresso e gestione sempre più restrittive. L’obiettivo di questa nota è quello di presentare gli effetti di queste svolte restrittive – in primis il “decreto sicurezza” del 2018 – sugli insediamenti informali di rifugiati ed immigrati in Italia, attraverso l’analisi di alcune occupazioni a Torino e Roma. Le occupazioni abitative di migranti sono spesso rappresentate nel discorso politico e mediatico come luoghi di degrado urbano e disperazione. Attraverso una prospettiva etnografica, mettiamo in luce come queste occupazioni non rappresentino soltanto soluzioni creative, per quanto precarie, al problema abitativo, ma possano diventare anche forme di «welfare bottom-up». Le retoriche securitarie che hanno accompagnato la crescente stigmatizzazione delle occupazioni informali negli ultimi anni hanno infatti trascurato l’importante ruolo sociale svolto da questi spazi, per migranti e non.

Diritto all’abitare migrante in Italia

La gestione del fenomeno migratorio in Italia è da sempre caratterizzata dal ricorso alla dimensione emergenziale e dall’assenza di progettualità. L’assenza di politiche reali di sostegno all’abitare per beneficiari di protezione internazionale inasprisce le già profonde dinamiche di segregazione urbana. Tuttavia l’accesso alla casa rappresenta un elemento essenziale per l’inclusione lavorativa e sociale, così come per il godimento di pieni diritti sociali e civili in un territorio; per molti rifugiati le occupazioni diventano così uno strumento attraverso cui ovviare ad un’inclusione inadeguata. Nonostante marginalità e precarietà siano parte integrante di queste realtà, le occupazioni si configurano dunque come rivendicazioni politiche del diritto alla casa, e al tempo stesso critica ai limiti del sistema di accoglienza.

Sgomberi “amari” e “dolci”

La svolta securitaria nelle politiche urbane italiane, iniziata con il d.l. n. 92/2008 (“decreto Maroni”) e inasprita con i “decreti Minniti-Orlando” del 2017, ha l’apice con il più recente d.l. n. 113/2018 (noto come “decreto Salvini”), che ha fatto della “guerra” alle occupazioni abusive uno dei suoi cavalli di battaglia. Tuttavia questa guerra alle occupazioni ha preso forme diverse in diverse località.
Il movimento per la casa romano è cresciuto negli ultimi anni, grazie alle migliaia di rifugiati e migranti esclusi dall’accoglienza istituzionale che si concentrano nella capitale, per la presenza di reti di supporto informale. La cronica assenza di soluzioni abitative ha favorito il moltiplicarsi di occupazioni più o meno stabili in edifici abbandonati, come quelle di Piazza Indipendenza (sgomberata nel 2017), Collatina (in lista per lo sgombero), Anagnina (anche chiamata dai media “Salam palace”). Queste sono occupazioni di massa, che ospitano centinaia di rifugiati, perlopiù provenienti dal Corno d’Africa.

Questi luoghi emergono alla confluenza di un sistema di accoglienza residuale, soprattutto nella fase post-riconoscimento della protezione legale, e sono spesso descritte come luoghi di disperazione e degrado. Tuttavia, visti dall’interno, questi luoghi si trasformano in spazi domestici, caratterizzati da relazioni intime e sociali significative, nonché da familiarità culturali, ricostruite attraverso cibi tradizionali, decorazioni degli spazi, e solidarietà reciproca.

Questi edifici sono entrati nel mirino delle autorità, sin dall’avvento delle più recenti politiche repressive in materia di occupazioni. Esemplare, in merito, è stato lo sgombero di un edificio occupato da circa mille rifugiati in Piazza Indipendenza (agosto 2017). Tuttavia, la politica degli sgomberi a tutti i costi a Roma si è scontrata con la sostanziale assenza di risorse e progettualità in grado di provvedere sistemazioni post-sgombero. In questo contesto, a febbraio 2020 un provvedimento regionale ha sancito la regolarizzazione degli occupanti di case popolari risalenti a prima del maggio 2014 ed il blocco degli sgomberi. Le evacuazioni, in tal senso, possono essere messe in atto solo se esistono alternative dignitose.

A questo approccio “duro” – almeno formalmente – di lotta alle occupazioni, si è affiancata una narrazione alternativa ed una differente politica di gestione dello stesso fenomeno nel contesto torinese. A Torino, negli edifici abbandonati dell’ex Villaggio Olimpico, localmente conosciuto come “Ex-Moi”, è sorta nel 2013 un’occupazione che è rapidamente diventata uno dei più grandi insediamenti informali di rifugiati di Europa e, al tempo stesso, un simbolo delle carenze del sistema di accoglienza italiano. L’ex-MOI viene definitivamente sgomberato nel luglio 2019, nel contesto dell’accelerazione nelle esecuzioni degli sgomberi richiesta dal Ministero dell’Interno. Tuttavia, l’amministrazione torinese ha cercato di contrapporsi alla linea dura proclamata dal governo attraverso una diversa narrazione politica, incentrata sull’idea di «sgombero dolce». La fuoriuscita degli abitanti dell’ex-MOI è stata gestita attraverso l’individuazione di opportunità lavorative e, a seguire, forme di regolarizzazione abitativa. È probabilmente troppo presto per analizzare le conseguenze della fine forzata di questa esperienza, tuttavia è chiaro che la logica top-down di questo intervento ha interrotto bruscamente importanti reti di solidarietà e inclusione. L’ex-MOI rappresentava un hub in una rete di relazioni sociali e commerciali che univano Torino con una molteplicità di paesi, in prevalenza africani ed uno snodo di una vasta rete di lavoro bracciantile. Inoltre, la transitorietà delle soluzioni abitative e lavorative proposte confligge apertamente con l’esigenza di stabilità che scaturiva dalla stessa pratica dell’occupazione.

Conclusioni

Le pratiche quotidiane di chi si trova a vivere all’interno delle occupazioni descritte evidenziano il valore delle reti informali che gli sgomberi dissolvono bruscamente. L’informalità abitativa, infatti, si configura spesso come un modo di abitare che riduce vulnerabilità, grazie alla solidarietà veicolata dal capitale etnico, sociale e di classe che emerge da questi luoghi. Questo non significa che questi contesti siano esenti da forme di discriminazione tra gli stessi abitanti o da forme di auto-segregazione. Tuttavia, in assenza di progetti a lungo termine che prendano in seria considerazione bisogni e motivazioni degli abitanti delle occupazioni, la pratica dello sgombero finisce col minare i tentativi di queste persone di costruire una minima stabilità esistenziale, nonché percorsi di partecipazione all’interno del territorio cittadino.

Le occupazioni abitative rappresentano infatti anche occasioni per sperimentare nuove forme di coabitazione, dove si addensano relazioni sociali, economiche e politiche, tra i migranti stessi, nonché tra loro, gli attivisti e gli abitanti dei quartieri. I casi delle occupazioni di Torino e di Roma, seppur diversi tra loro, mostrano chiaramente come il ricorso sempre più frequente alla pratica dello sgombero rischi spesso di incrementare la vulnerabilità di soggetti già vulnerabili, nonché di riprodurre ciclicamente le condizioni di precarietà esistenziale che molti migranti sperimentano dal loro arrivo in Italia.

Milena Belloni, Enrico Fravega, Daniele Giudici

Riferimenti Belloni M., Fravega E., Giudici D. (2020), Fuori dall’accoglienza: insediamenti informali di rifugiati tra marginalità e autonomia. Politiche SocialiN. 2/2020, pp. 225-244.

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