“Abbiamo avuto da Dio la ragione – oltre la libertà – la coscienza, l’intuizione creatrice della bellezza, il sentimento”. Ho tratto questa frase dal messaggio che Monsignor Simoni ha inviato agli amici di Politica Insieme nel giorno di Natale 2019, il Natale “normale”, l’ultimo  – verrebbe da dire – di un altro “evo”.

La coscienza e la libertà, la ragione ed il sentimento, l’intuizione, insomma l’insieme di quelle facoltà che Monsignor Simoni ci ricorda e che ci rendono umani, sono state messe a dura prova dalla pandemia. E’ come se fossimo invitati o costretti, nostro malgrado, a disfare gli orpelli e le superfetazioni che si sono via via accumulate sull’ arco di volta che regge le nostre vite individuali e la vita collettiva, originariamente con l’intento di alleviarne la fatica, senonché hanno finito per cristallizzarsi in incrostazioni che l’hanno appesantita oltre misura.

Spesso gli stessi “valori” hanno assunto posture rigide, intrappolati in una catena di convenzioni “politicamente corrette”, formalmente ineccepibili, eppure colme di ipocrisia e spente, cosicché siamo indotti a riscoprire alla fonte le risorse della nostra comune umanità, le motivazioni che le sollecitano, le attese che originariamente ci sono connaturate.

La “bellezza”, che Mons. Simoni richiama: è ancora in nostro potere scorgerla nell’ordine delle cose, così come si mostrano al nostro sguardo o addirittura “crearla” dando a tutto ciò che di informe e disarmonico ci circonda un “senso” che a prima vista non appare, eppure può ricomporsi e svelarsi nell’ intimo della nostra interiorità e poi emergere da quella dimensione impalpabile che, non sapendo dire meglio, chiamiamo “intuizione” e sta oltre, trascende ogni attitudine al calcolo ed alla cadenza pre-ordinata dell’algoritmo? O addirittura la capacità di rendere giustizia anche a quest’ultimo che, nella vulgata corrente, appare come un che di grigio, meccanicamente pedissequo a regole di computazione, tutto sommato banali ed invece può  essere straordinariamente “bello”, nella misura in cui spesso, nel frammento della sequenza nasconde e rivela lampi e squarci dello splendore del “tutto”.

Abbiamo attraversato una stagione che ci ha visti vivere il rapporto con la scienza in modo ambiguo o almeno ambivalente, tra un’ attesa ed una fiducia illimitata ed acritica nei confronti della sua presunta onnipotenza e, ad un tempo, il timore legittimo che tale onnipotenza dispieghi fino in fondo i suoi effetti. Del resto, secondo l’attitudine sua  – e della tecnica soprattutto – a non disperdere e lasciar cadere nulla di ciò che è in suo potere, anzi imponendo la pretesa del suo integrale compimento, a costo perfino di una possibile disumanizzazione di ciò che ne consegue.

E’ tempo, grazie alla pandemia, di rimettere ordine anche su questo versante del nostro mondo globale e lo stesso avvio della campagna di vaccinazione può essere l’occasione per maturare una consapevolezza più lucida circa l’ avanzare incalzante, eppure sempre parziale, di una conoscenza scientifica che non deve risolversi in una dimensione soltanto “utilitaristica”, bensì conservare sempre e comunque quella vocazione contemplativa che ne rappresenta un elemento costitutivo e sostanziale.

Il “negazionismo” è pura follia ed irrazionalità oppure una voce che dà voce ad un rumore di fondo che è più diffuso, sia pure in forme subliminali, di quanto pensiamo? Ad ogni modo, è la scienza che ci libera dal virus e almeno questa volta, ancor più, ad essere determinante è l’alleanza tra la ricerca e l’imperativo morale che ha mosso centinaia e centinaia di scienziati in tutto il mondo, per quanto le ragioni del mercato non siano certo assenti dalla competizione che ha coinvolto decine e decine  di aziende del farmaco. E’ un po’ come se l’umanità intera si avviasse ad un rito di rigenerazione, quasi ci dovessimo immergere nelle acque del Giordano per una sorta di battesimo laico.

Purché sia chiaro che la scienza ha a che vedere con la salute, non certo – eppure c’è il rischio che si cada in un equivoco del genere – con la “salvezza”, che è tutt’altra cosa, per quanto certi cultori estremi della “tecno-scienza”  – adoratori che la trasformano in  un feticcio – sembra vogliano sovrapporre e confondere i due piani e così si infilano nelle tesi del cosiddetto “transumanesimo”. Il quale, per quanto approdi ad una concezione antropologica povera e scadente, probabilmente allude ad un processo che potremmo chiamare di “immanentizzazione” del trascendente, di tentata  cattura entro l’orizzonte dell’immanenza di quella dimensione dell’ “oltre”, talmente costitutiva di ciò che siamo da non poterne fare a meno, in modo tale che, avendola sostanzialmente smarrita o accantonata, sia pure inconsapevolmente, per improbabili che siano, ne fabbrichiamo dei simulacri o dei surrogati.

La scienza è una grande e straordinaria risorsa, opera nostra, frutto dell’ intelligenza umana, storicamente segnata e tale da dover essere custodita, protetta e salvaguardata dalle possibili contraddizioni che pure l’attraversano. Cosa corre, ad esempio, tra chi nega perfino che la coscienza esista, riducendola ad una sorta di accidentale epifenomeno di processi neurofisiologici e chi pretende, invece – o non è forse la stessa cosa? – di dotarne i robot oppure altri apparati di Intelligenza Artificiale?

Vogliamo umanizzare i robot, magari attribuendo loro un’etica che altro non sarebbe se non una finzione, la mera traslazione di una nostra etica – quella prediletta da chi “costruisce” il robot, con ogni probabilità non disattento alle ragioni di mercato del prodotto –  tradotta nelle forme di una “meccanica” per quanto sofisticatissima? O non rischiamo piuttosto di robotizzare l’uomo se scordiamo che ogni etica presuppone  la libertà e la libertà pretende l’ interiorità della coscienza?

Davvero c’è chi onestamente può sostenere come ciò che è più autenticamente umano, i sentimenti, addirittura la facoltà di distinguere il bene dal male sia trasferibile ad una macchina? Non significa forse fare “mercato” perfino dei sentimenti, dopo averli ridotti ed avviliti ad artefatti espressivi?

Che concezione avremmo dell’uomo se pensassimo di poterlo “sfogliare” in una pluralità di funzioni separate e distinte da dislocare qua e là in una pluralità di apparati, al di fuori dell’unità indivisibile della sua identità più intima e profonda? Si tratta di temi su cui è necessario tornare con ben altri approfondimenti e decisamente al di là della stantia predicazione di una supposta inconcilibiltà tra scienza e religione, sostenuta puntigliosamente da determinati ambienti, anzi richiamandosi alle parole introduttive dell’Enciclica “Fides et Ratio”: “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”.

Domenico Galbiati

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