La improvvisa  e inaspettata scomparsa del presidente dell’ Europarlamento Davide Sassoli, una persona che, attingendo, senza mai nasconderlo, al patrimonio dei  valori umanistici comuni al nostro continente,  è stata capace di conservare dignità e prestigio  alle istituzioni europee, anche di fronte a contraddizioni ed incoerenze inaccettabili ( l’ Europa dei “fili spinati” e dei respingimenti e l’ Europa “guidata” dalle “leggi dei numeri”)  è una occasione provvidenziale per riflettere sull’istituzione europea che è oggi, tra quelle di vertice, la  meno dotata di poteri incisivi, ma forse la più capace di aperture al futuro, a quel “futuro” dell’ Europa cui sembra  arduo  pensare di fronte al peso delle sfide e delle incognite di una società globalizzata, che sembra sempre più una società dei rischi crescenti, a partire dalla crisi eco-sanitaria che viviamo. Senza dubbio l’istituzione più “coraggiosa” tra quelle europee, anche grazie a persone come Davide Sassoli, che non ha mai nascosto le sue convinzioni sul ruolo dei valori umanistici nel fondare la democrazia. Anzi aggiungerei, unica istituzione europea che “deve” necessariamente essere sempre “coraggiosa”, dovendo non tanto garantire l’osservanza delle norme o la coerenza dell’ordinamento, ma produrre le norme che aprono il futuro, ma che perciò ci conducono entro la “terra incognita” delle inedite crisi del mondo attuale.

Il coraggio in politica, ma anche nella vita comune, è piuttosto “scomodo”. Oggi anzi più scomodo che mai, in Europa come in Italia.  Il motto kantiano “Sapere Aude !” ( Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!), il motto  che  connota l’  uscita dell’uomo dallo stato volontario  di  minorità, significava, al tempo dell’ Illuminismo, l’uscita dalla  sudditanza verso una autorità culturale, una idea tradizionale,  una cultura, un potere assoluto. Una sudditanza ormai inesistente. Oggi però esso sarebbe ancora più attuale, ma in un altro senso , dato che esso potrebbe solo significare altro, cioè l’uscita dalla nuova e confortevole sudditanza,  al livello più basso, rispetto alle opinioni diffuse dai social media, dalle chat, e dai più disinvolti e irresponsabili  “opinion-maker”, al livello più alto,  rispetto alle intelligenze artificiali, agli algoritmi, alla (pseudo) intelligenza meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, algoritmica, binaria che fraziona i problemi , separa ciò che è legato, “una intelligenza miope che il più delle volte finisce per essere cieca” ( Edgar Morin). Una intelligenza che sa entrare nei dettagli delle cose in modo raffinato, ma meno sa vedere i problemi quanto più essi sono globali, perché essa non sa ricostruire l’insieme, essendo caratterizzata da un pensiero basato sul calcolo e sui sistemi binari, cioè sulla separazione, non sulla ricomposizione. Una “intelligenza” dunque  che non ha più a che fare con ciò che nelle antiche culture, come in quella ebraica,  si intendeva con “cuore” e quindi non una intelligenza che si collega al “coraggio”.

Siamo di fronte a nuove servitù, alle “servitù digitali”. E’ la (pseudo) intelligenza infantilizzante- guidata più dalla paura che dal cuore-  che in politica alimenta i conflitti, che identifica ciò che è diverso con ciò che è opposto, che sa vedere solo il bianco e il nero, che produce gli slogan più abietti, separa e distanzia gli individui tra loro ( anche senza bisogno del Covid), ma separa e contrappone anche gli Stati, spinge ognuno noi a “chiudersi” entro  confini spaziali e temporali sempre più limitati, confini solo apparentemente cancellati  dalle ubiquitarie connessioni telematiche e dalla frenetica mobilità della società liquida.

Solo lo sguardo limpido e lungimirante di una assemblea sovranazionale, quando ha il coraggio di spingersi oltre ciò che è quotidiano e vicino, può produrre la comprensione dei problemi globali, può porre le basi per “affratellare” davvero le persone. Solo questo sguardo può ridisegnare il futuro dell’ Europa. Ecco il senso nuovo e l’insegnamento che può venire a tutta la politica, italiana e non italiana,  dall’  Europarlamento e dai migliori rappresentanti del popolo europeo. E’ ciò che possiamo ricavare dai migliori documenti dell’ Europarlamento.

E’ questo il caso  di una  risoluzione esemplare e coraggiosa dell’ Europarlamento, la  “Risoluzione del Parlamento europeo del 27 aprile 2017 sulla situazione relativa alla concentrazione dei terreni agricoli nell’UE: come agevolare l’accesso degli agricoltori alla terra (2016/2141(INI)”, una risoluzione  che mostra come il punto di vista di un’assemblea sovranazionale consenta di  mettere a fuoco una questione  ignorata dai Parlamenti e dai governi nazionali, oltre che dai media, dalla divulgazione corrente e dal pubblico dibattito.

Esiste oggi, nell’ Europa del XXI secolo, una enorme  questione agraria ( o agro-ecologica).    Oggi che , sociologicamente parlando, i contadini sono scomparsi nel cosiddetto mondo sviluppato , sembra che l’agricoltura sia addirittura divenuta altra cosa rispetto a ciò che è sempre stata, sembra che essa  non sia più coltivazione o allevamento, cioè interazione organica dell’uomo con la natura, ma una produzione come le altre di merci, beni vegetali o animali, realizzata  coi moderni sistemi tecnologici tipici dell’industria e dei servizi ( un insieme di “fabbriche di carne e di grano”, come a suo tempo le aveva definite Giuseppe Stalin, non proprio il precedente migliore). Si tratta dell’ “agricoltura industrializzata” che può sembrare di per sé un portato positivo ed inevitabile di un astratto progresso. Mica vorremmo tornare all’aratro tirato dai buoi? E’ questa agricoltura che mostra però oggi tutti i suoi limiti ( peraltro indicati da tempo dagli studiosi del settore).

La UE certo non ha competenze esclusive nel settore agricolo, ma, dagli inizi della CEE, un grande spazio di intervento ha sempre riguardato le politiche agricole comuni ( Art. 39 -44 TFUE) e l’organizzazione dei mercati agricoli. Ed una quota consistente del bilancio UE ha sempre finito per finanziare queste politiche. Il suo ruolo non è qui dunque affatto secondario, ancor meno lo può essere oggi.

La Risoluzione europea è ben consapevole di questo ruolo e propone analisi e iniziative con tale ruolo congruenti. E’ una Risoluzione che ci apre gli occhi sui problemi dell’ equilibrio ecologico e della tutela dei diritti, in modo sorprendente. Ci sono aspetti di novità che non possono non sorprendere il cittadino comune, e non solo il cittadino comune.

La prima novità è nel fatto che la Risoluzione denuncia una sorta di “latifondismo invisibile”, simile a quello dei  paesi cosiddetti  in via di sviluppo e dell’ America  Latina, evidenziando come “nel 2013 nell’UE-27 il 52,2 % della superficie  agricola utilizzata in Europa era controllato soltanto dal 3,1 % delle imprese, che, per contro, il 76,2 % delle imprese aveva a disposizione una quota di terreni agricoli pari solo all’11,2 %” Risoluzione,  p. 1) , una configurazione simile, per ciò che concerne la destinazione d’uso dei suoli e la concentrazione della disponibilità della terra agricola, a quella di paesi quali il Brasile, la Colombia e le Filippine. Chi avrebbe potuto immaginarlo? Una situazione che nessun Parlamento nazionale probabilmente ha difficilmente  denunciato- credo- in termini simili.

La seconda  novità è nel fatto che la Risoluzione propone  una sorta di diritto di accesso alla terra agricola che può sorprendere chi pensa ad una UE garante delle astratte libertà di mercato. Nella Risoluzione si riconosce infatti “che l’accesso alla terra e alla proprietà sono diritti fondamentali riconosciuti dal diritto nazionale di ciascuno Stato membro” ( Risoluzione, p. 1) ed addirittura che, in qualche modo, il mercato fondiario deve derogare alla logica di scambio universale  e di mobilità cui è soggetto il mercato dei capitali, facendo riferimento ad una pronuncia della Corte Costituzionale tedesca ( 1 BvR 169/63 del 12 gennaio 1967) del 1967 per cui “   il trasferimento di terreni rurali non deve godere della medesima libertà del trasferimento di qualsiasi altro capitale, poiché i terreni sono beni non moltiplicabili e indispensabili, e un giusto ordine giuridico e sociale obbliga a valorizzare gli interessi pubblici in materia di terreni in misura maggiore che per altri beni” ( Risoluzione, p. 2).

I titoli di proprietà fondiaria e di utilizzazione agricola non possono essere dunque liberamente scambiati sul mercato e circolare come i beni capitali . Ciò porterebbe infatti ai fenomeni di accaparramento ( land grabbing) e concentrazione nelle mani di chi offre i prezzi più elevati

La Terra non può essere considerata una merce, essa è un “bene non moltiplicabile e indispensabile” dotato di un interesse pubblico maggiore di quello di altri beni, quindi un bene da tutelare per la sua funzione sociale, anzi pubblica.  Non è una merce, non è un “financial asset” (risorsa finanziaria) , ma una risorsa naturale limitata, è  territorio che ospita ecosistemi e biodiversità da proteggere.  Nella proprietà individuale fondiaria sono presenti aspetti che fanno di essa un referente di interessi collettivi e diffusi: pensiamo alla bellezza del paesaggio, alle tutele dell’ecosistema, alla bio- diversità, al diritto alla genuinità e sanità dell’alimentazione umana ….

La terza  novità è il collegamento  tra la tutela dell’ecosistema agricolo ed il modello di agricoltura europeo, un modello agricolo multifunzionale, ecosostenibile e intergenerazionale, grande valore umanistico della storia comune europea, l’opposto del modello agro-industriale distruttivo ed antiecologico, il cui esempio più evidente è forse quello degli allevamenti intensivi, responsabili in Europa dell’ emissione di CO2 in misura maggiore delle emissioni degli autoveicoli. Un modello che, nella sua forma più pura( e più disastrosa), è stato realizzato soltanto nell’ URSS ed in altri paesi comunisti.

E’ il modello europeo  così descritto nel documento : “ Il  modello agricolo europeo ( è) basato su un’agricoltura multifunzionale, caratterizzata principalmente da aziende a conduzione familiare di piccole e medie dimensioni e aziende agricole cooperative con proprietà dei terreni (Risoluzione, p.3) E si precisa poi “che un’ampia ripartizione della proprietà, diritti di utilizzo del terreno sicuri e l’accesso ai terreni comuni, gestiti in maniera sostenibile, garantiscono un accesso equo alle risorse e una struttura agraria eterogenea e legata al luogo di residenza che contempli le tradizioni, la certezza del diritto e la responsabilità nei confronti della società; che tale modello tutela i prodotti tradizionali e la sovranità alimentare e promuove l’innovazione, proteggendo nel contempo l’ambiente e le generazioni future” (Risoluzione, p.3)

Un modello quindi funzionale a garantire non solo la sopravvivenza di aziende familiari, ma sostenibilità ambientale, certezza del diritto , responsabilità anche intergenerazionale e sovranità alimentare. Un modello che non è invenzione di oggi, ma che è una eredità plurisecolare di storia comune europea.

Infine una quinta novità, il ruolo delle politiche europee nel promuovere una politica di riassetto fondiario che contrasti le politiche di accaparramento (land grabbing) attraverso anche le opportune correzioni e revisioni della politica di sussidi sinora perseguita ed un controllo dei mercati fondiari, con la finalità di consentire quel “diritto alla terra” di cui parla il testo.

Infatti, continua la risoluzione: “considerando che le società per azioni in agricoltura aumentano con preoccupante velocità; che tali società spesso agiscono a livello transfrontaliero e che il loro modello imprenditoriale è per lo più dominato dalla speculazione terriera piuttosto che dalla produzione agricola ( il Parlamento) invita la Commissione a istituire un osservatorio per la raccolta di informazioni e dati sul livello di concentrazione dei terreni agricoli e della proprietà fondiaria in tutta l’Unione, incaricato di: registrare i prezzi di acquisto e di locazione nonché il comportamento dei proprietari e dei locatari sul mercato; monitorare la perdita di superfici agricole a seguito di cambiamenti della destinazione d’uso dei suoli, l’andamento della fertilità del suolo e l’erosione.” ( Risoluzione p. 5)

Se si vuole davvero combattere il rischio del “land grabbing” e quindi assicurare una vera transizione agro-ecologica, le quattro libertà di movimento (di merci, capitali, servizi e persone) non possono più essere  priorità assolute. C’è la necessità di normare e disciplinare in modo nuovo tali movimenti per salvaguardare gli interessi pubblici collettivi finora trascurati. Come ci dice, ancor più chiaramente  un documento prodotto da un Istituto di supporto alle istituzioni europee, il Nyeleni Europe and Central Asian Platform for food sovereignity(nel testo Roots of Resilience- Land Policy for  an agroecological transit  in Europe, February 2021)

“ Un mercato fondiario basato solo sulle quattro libertà di movimento (merci, persone, servizi e capitali) non è adeguatamente inclusivo per poter affrontare il rischio della discriminazione e e della marginalizzazione legati all’accaparramento dei terreni. L’uso appropriato dei terreni agricoli è specificato nelle Costituzioni dei vari Stati membri dell’ UE, per garantire così protezione speciale ai terreni agricoli. In termini legali questo rende il bisogno di proteggere i terreni agricoli di preminenza superiore rispetto a libero movimento dei capitali  e persino del diritto alla libertà di stabilimento (Nyeleni Europe ecc. P. 26).

Ecco l’Europa, la sola Europa che può uscire davvero dalla pandemia e dalla barbarie civile in cui rischiamo di finire, l’ Europa che ritorna finalmente ai suoi principi umanistici. La coraggiosa denuncia della nuova questione agraria ( o agro-ecologica) del XXI secolo comincia a indicarci la direzione dei mutamenti necessari per riprogettare sul serio e ridiscutere a fondo sul “futuro dell’ Europa”. La concorrenza non è all’origine un principio europeo;  è un principio fondamentale del patrimonio costituzionale italiano e di altri Stati europei oltre ad essere una dimensione regolata dai trattati europei e competenza esclusiva – solo per ciò che concerne la regolazione di essa- dell’ UE. Ma il principio di concorrenza non può realizzarsi  esclusivamente o principalmente attraverso la libertà di movimento di merci capitali e persone, non può realizzarsi soltanto attraverso una rimozione di ostacoli al movimento, ha bisogno anche di norme che definiscano in positivo obblighi e vincoli per tutelare gli interessi pubblici e generali che potrebbero essere invece messi a repentaglio da questi movimenti.

In altri termini, il principio di concorrenza funziona ed ha un senso comprensibile a tutti,  se si parte dall’idea del fine supremo a cui essa mira e rispetto al quale essa non è altro che un mezzo. Ora quel fine- e ben lo dimostra il nostro esempio, quello del problema agro-ecologico-, non può essere né  la crescita della produttività, o  della produzione, né la moltiplicazione indefinita dei beni a disposizione dell’uomo, quasi non ci dovesse esser limite ad essa, né una competitività per il “progresso” fine a se stessa. Il fine supremo della (vera) concorrenza esiste, ma è quello formulato, ad esempio, dall’art. 3 della nostra Costituzione: “ rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Ci può essere per la concorrenza un fine superiore a questo ? Non credo. Questo è il fine politico più alto che possa animare un cittadino italiano ed europeo ed è anche il fine che le istituzioni di governo si devono sempre porre per primo. Nessun dubbio che il presidente Davide Sassoli lo abbia fatto con assoluta coerenza. Tradurre in idee politiche questo fine è, e spero che sia,  il contributo più importante che l’ Italia deve  trasmettere all’ Europa.

Umberto Baldocchi

 

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