Philip Wade ha sessant’anni, una cattedra di Storia contemporanea al “Birkbeck” College di Londra, il celebre istituto
di ricerca di Eric Hobsbawm, e ha vissuto molte vite. Figlio della working class di Liverpool, studente di letteratura a Oxford, allievo di Federico Caffè a Roma, oggi è incline alla malinconia: sogna ancora un mondo animato dai lumi della ragione e dai principi di uguaglianza. Sogna. Lo siamo andati a trovare per avere la sua in merito alle implicazioni del Coronavirus su economia e società nell’epoca della globalizzazione.
Professor Wade cosa sta succedendo?
A un’occhiata superficiale, niente di strano. Come ogni tema da prima pagina, il Coronavirus è diventato un campo di battaglia politico. Sarebbe lo stesso anche se non si trattasse di un fatto epocale.
Lo è?
Siamo al day after. L’apocalisse c’è già stata. Stiamo osservando la sconfitta di chi pensava che l’accelerazione del progresso non avesse freni.
Qualcuno però obietterebbe che il mondo ha già conosciuto e superato la peste…
Nessuna epidemia ha mai surgelato il mondo come oggi. Nessuna guerra. Questo virus è la minaccia più grande ai mercati e alla globalizzazione di sempre.
Parlava di campo di battaglia politico
Sì, dove stanno nascendo alleanze suggestive. Da una parte le anime belle, non so se sprovvedute o ipocrite, che sottostimano la portata della questione e considerano il virus una sorta di emanazione del razzismo latente. Dall’altra parte le frange più estreme del capitale finanziario, che squalificano il virus come il solito fattore esogeno al
mercato e sostengono che alla fine, quando sarà debellato, creerà grandi opportunità d’investimento. L’altro soggetto è la macchina da guerra del populismo, con la sua propaganda che cerca di sfruttare il virus per imporre politiche
sovraniste e tenere in piedi una campagna elettorale fuori stagione. Ma il populismo sta anche ben attento a non creare panico sui mercati, per non disturbare il suo alleato occulto, che è il grande capitale.
Sembra un enigma, un rompicapo senza soluzione. Comunque qualcosa di indecifrabile. Le cose sono più complesse di quanto si direbbe a un’occhiata superficiale.
D’altronde è un discorso che vale quasi sempre. Credo che ci stiamo muovendo al buio, tra ipotesi empiriche e proiezioni numeriche molto difficili da interpretare. I mercati sono sempre un ottimo indicatore, e la loro reazione è stata plastica. All’inizio una fase emotiva di discesa, breve, poi subito una risalita perché non si era creato quel panico che cercavano i ribassisti. I mercati spingono lo sguardo in avanti e già immaginano una soluzione nel medio termine. In questa prospettiva si dà la resilienza, e nel fatto che gli elementi esogeni temporanei si trasformano in buying opportunities. A fronte della stabilità dei mercati, ci sono i provvedimenti adottati. Il Global North che interrompe le filiere di produzione. Le fabbriche chiuse in Asia. Lo shipping bloccato. La mobilità umana che di colpo
viene limitata. Una vera discrasia. Come a dire: la temperatura dell’economia reale ha valori diversi da quella virtuale dei mercati, che non dànno segni di vera agitazione.
E questo è il presente. Ma secondo lei cosa dobbiamo aspettarci, in quale direzione evolverà il virus?
In una nuova era. La direzione è quella. Una nuova era nella quale verranno testati ripetutamente i limiti dell’espansione economica e della globalizzazione. Perché l’impatto del virus sull’economia è devastante. Già oggi, intendo. Ma quello che deve far riflettere è il lungo termine. Le scorie. È un dato di fatto: nella storia dell’umanità non si è mai visto il mondo intero fermarsi. Vede, contro il contagio si chiudono le frontiere, si limita la circolazione
di merci e individui. Però l’espansione economica del nuovo millennio è fondata sull’abbattimento di qualsiasi barriera e restrizione. Se il virus resisterà a lungo, finirà per dominare il linguaggio politico e diventerà costituente.
Mi sembra di capire che lei prevede un ritracciamento della globalizzazione?
L’impressione è quella. Lo dico con preoccupazione. Da un lato l’economia digitale sarà sempre più divisa nei due blocchi, Cina e Stati Uniti. Dall’altro l’economia reale subirà un processo di rilocalizzazione. È come se la globalizzazione avesse scoperto i propri limiti, di colpo. Ai miei studenti parlo spesso di un libro di Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, per raccontare come l’America venne conquistata grazie alla mancanza di anticorpi. Gli europei portavano virus dai quali gli indigeni non potevano difendersi. Oggi i virus non sono più armi ma
rappresentano la minaccia esterna nella sua interezza e il perimetro entro il quale l’espansione deve muoversi. I contagi sono le nuove guerre da combattere..
Da dove nasce questa minaccia?
Da una trappola evolutiva. La presenza attuale degli uomini sulla Terra è un unicum nella storia del pianeta. Troppi esemplari, che si appropriano di troppe risorse. L’Uomo entra nelle profondità vergini della natura, le invade. Entra in contatto con creature viventi sconosciute, e con i loro virus. Taglia gli alberi, uccide gli animali o li ingabbia per portarli vivi nei mercati. I virus, non avendo più chi li ospitava naturalmente, hanno bisogno di un nuovo portatore. Ed ecco la contaminazione: dall’animale all’Uomo, quindi dall’uomo all’uomo. L’Uomo ha cambiato le cose tanto in fretta che la natura si è ribellata.Oggi il virus attacca il mercato più remoto nel cuore della natura, domani sarà a Tokyo. Perché si è azzerata la distanza che separava il villaggio rurale dal villaggio globale. E tutto ha avuto origine nel fondo oscuro della natura, a cui l’uomo non aveva mai avuto accesso prima.
Non è strano parlare di guerre, in tempi in cui le guerre vengono fatte per procura in Paesi franchi
– lontani dalle filiere di produzione e già devastati da parecchio…
Le guerre ormai sono delocalizzate e hanno impatto zero sull’economia, ma i virus si insinuano nei gangli dell’economia e della finanza. Toccando il cuore del mondo globale, possono avere un effetto devastante.
Intervista pubblicata su Idiavoli.com