(Breve appunto per non addetti ai lavori)

Si conosceranno entro poche settimane le grandi linee del programma nazionale di interventi e riforme da finanziare con i duecento miliardi di euro del Recovery Fund. Le schede di progetto saranno presentate a un comitato interministeriale, poi passeranno al Governo e al Parlamento per essere approvate e presentate alla Commissione Europea. E’ quindi prevedibile che stavolta non arriveremo in ritardo, a meno di incidenti di percorso autunnali che mettano in gioco il Governo stesso. Sin qui tutto bene, anche se il confronto parlamentare, quando si tratta di iniziative di spesa, suscita sempre tentativi di assalto alla diligenza.

C’è però un convitato di pietra, come nel Don Giovanni di Molière, sempre presente quando si mette mano al bilancio dello Stato. Una presenza imbarazzante, non tanto nascosta né silenziosa, ma pur sempre inquietante sino al punto da non poter essere ignorata e che di questi tempi sono in pochi a richiamare: il debito pubblico.

Non se parla quasi più, se non nelle notizie che hanno accompagnato i decreti che si sono succeduti negli ultimi mesi per affrontare l’emergenza pandemica e quindi anche la crisi economica che ne è seguita. Non è un mistero che il decreto “cura Italia”, quelli “liquidità” e “rilancio” fino al più recente di questi giorni hanno comportato impegni complessivi di spesa per almeno cento miliardi di euro a debito, ovvero finanziati con altrettanti scostamenti di bilancio.

L’ultimo Bollettino della Banca d’Italia (luglio 2020, pag.48) parla di un debito pubblico che a maggio ha sfondato il tetto dei 2.500 miliardi di euro, più di una volta e mezzo di tutto il prodotto del Paese con un maggior indebitamento netto del 10,4%. Per capire dove siamo, l’anno scorso l’indebitamento netto era stato del 1,6%.

Vero è che siamo in emergenza; che tutto questo sta accadendo anche negli altri Paesi dell’Unione per non dire del mondo intero; che persino Draghi aveva ritenuto inevitabile ricorrere a politiche espansive; che tutto sommato fino ad oggi il nostro Paese ha sempre onorato le scadenze dei suoi titoli anche in tempi duri e che pertanto il nostro debito si è ancora sostenibile. Tutto vero. Ma il peso del naviglio sul quale siamo tutti imbarcati è sempre più gravoso e all’orizzonte ci sono nuvole nere: prima o poi tornerà il patto di stabilità europeo da rispettare, come pure il fiscal compact, come pure il divieto di aiuti di Stato alle imprese.  Prima o poi i mercati torneranno ad essere corrucciati, come segnala quello dei CDS (credit default swap) derivati che coprono i rischi di default e dove siamo considerati peggio del Messico e dell’India.

Certo, oggi abbiamo la Banca Centrale Europea che interviene pesantemente con gli acquisti dei nostri titoli e rappresenta una robusta rete di protezione. Ma domani?

Quando poi il tasso di interesse riprenderà a crescere gli effetti sul bilancio potrebbero rivelarsi difficilmente sostenibili.

Come uscirne allora? Sono due le strade da percorrere. Una la indica da sempre la scienza economica, ed è quella dell’aumento del prodotto interno lordo che però da dieci anni langue e che solo una ripresa economica robusta potrebbe assicurare. L’altra è quella di tornare ad avere bilanci dello Stato in attivo al netto degli oneri finanziari sul debito. Quindi con meno spesa corrente. Questa strada la conosciamo bene perché l’abbiamo percorsa per almeno quindici anni filati fino al 2017 e in un passato non lontano abbiamo anche avuto Governi che hanno saputo almeno ridurre il debito pubblico.

Ecco allora che il problema torna alla politica o meglio a quello che dovrebbe essere il limite della politica. Ma per i partiti, o ciò che resta oggi di loro, questo limite sembra sempre più perdutamente negato.

Guido Puccio

 

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