“Contro crisi, povertà, risorse e spazi sociali alle città, sono solo un diritto”.

Questo è un “manifesto politico” apparso a caratteri cubitali sulla parete di una casa diroccata alla periferia est di Roma. Periferia nata ai margini del centro storico della città, con palazzi enormi di undici piani, per una lunghezza di oltre un centinaio di metri. Un formicaio dove vivono principalmente famiglie di operai, impiegati, disoccupati, piccoli spacciatori per sbarcare il lunario. Si tratta di enormi quartieri dormitorio, spesso privi di servizi essenziali e attraversati da sempre da un grave disagio sociale. Queste periferie si chiamano Primavalle, Tiburtino III, San Basilio, Tor Bella Monaca, Laurentino, Ponte di Nona e tante altre ancora.

Un ampio agglomerato urbano privo di strutture come asili nido, scuole, campi di calcio, cinema, teatro, librerie. Assenze fondamentali per la crescita culturale di una popolazione costretta a rinunciarci per la propria crescita culturale e, in futuro, per la ricerca di un posto di lavoro. Luoghi periferici dove i ragazzi troppo spesso abbandonano la scuola troppo presto per prestarsi a un vagabondaggio senza controllo che spesso finisce con il piccolo furto o lo spaccio di sostanze stupefacenti. Racconta uno di loro che ha vissuto in periferia dalla nascita fino all’età di 19 anni. Da bambino avevo una paura tremenda del carcere. Facevo parte di una piccola banda di ragazzini: il più piccolo aveva 10 anni, il più grande 14. In periferia non esistevano i giardini; i ragazzi giocavano per strada, inventavano giochi che solo i poveri sapevano inventare: l’aquilone con le code multicolore, il moto pattino con le sfere, la fionda con la quale colpivamo i lampioni a trenta metri di distanza. Ma la strada, si sa, oltre che a giocare e socializzare, è anche cattiva consigliera, dove i ragazzi più svelti, spesso ti indirizzano verso una strada sbagliata, a volte senza ritorno. Un giorno la nostra piccola banda, composta da cinque ragazzini, rubò diverse confezioni di uova da un piccolo negozio di alimentari. Quando tornammo a casa cominciò a circolare la voce che i carabinieri ci stavano cercando per portarci tutti in carcere. Ci prese il terrore. Ognuno di noi si nascose in casa sperando di non essere scovato dalle guardie. Rimanemmo tutti col fiato sospeso. Molti di noi piansero. Furono momenti di autentica paura. In realtà la voce dell’imminente arrivo dei carabinieri nelle nostre case la misero in giro i nostri genitori per spaventarci, per farci capire che rubare comporta poi una pena da scontare in uno di quei posti bui e freddi che sono le nostre carceri. Poi tutto passò. Ma la lezione l’avevamo ben imparata”.

Al contrario, i cittadini delle grandi città hanno la possibilità di avvalersi di importanti fattori di sviluppo sociale e culturale che consente loro un miglior benessere e un modo di sfuggire alla povertà, con una formazione ricca di studi e una maggiore possibilità di trovare un posto di lavoro al termine dei loro impegni scolastici.

In periferia tutto questo manca e pochi sono gli esempi di coloro che riescono a raggiungere uno status sociale soddisfacente. Per anni scrittori famosi come Pier Paolo Pasolini hanno descritto il degrado delle periferie romane, la vita dei giovani in mezzo alla strada, vissuta con espedienti ma anche tra la solidarietà che nasce dalla loro amicizia e dalle loro malefatte.

Purtroppo, oggi ci sono pochi segnali di cambiamento. I poveri delle periferie, ma non solo, sono sempre più poveri per effetto della pandemia, della guerra, della crisi energetica e del costo della vita. Si parla poco delle storie di questi ragazzi sfortunati solo perché nati e vissuti in periferia. La loro condizione materiale va di pari passo con il tema dell’istruzione. La carenza di strumenti culturali e di strutture sociali riduce loro la possibilità di trovare in futuro un lavoro fisso e ben retribuito.

Anche la televisione pubblica e privata, ignora ormai le tematiche sociali che riguardano gran parte della popolazione. Si è persa infatti la capacità giornalistica delle inchieste sul territorio, dei dibattiti sui casi scandalosi della corruzione, dei ritardi per un ricovero in una struttura ospedaliera, delle fabbriche che chiudono, della disoccupazione giovanile che ha ormai raggiunto livelli insopportabili, della paura del futuro delle donne e delle nuove generazioni.

Le TV, tutte le TV, si limitano ormai a trasmettere “talk show” ripetitivi, dove prevale chi urla più forte e dove le tematiche politiche e sociali sono sopraffatte dalle critiche rivolte agli avversari politici di turno. Viviamo ormai in una società post – industriale dove domina il denaro e dove ci si accontenta di ascoltare le canzonette di San Remo al prossimo festival. Qualunque piccola novità canora viene amplificata, urlata, come se la tragedia della povertà non esistesse e il disagio e la paura del futuro fossero scomparsi per magia.

Forse occorrerebbe riguardare le inchieste televisive degli anni passati, TV7, Tam Tam, Speciali TG,  AZ, Un fatto come e perché, e iniziare di nuovo a “raccontare” i problemi reali del paese e non, viceversa, “addormentare” l’intera comunità con i “talk show” e la diffusione di canzonette che interessano solo gli autori per fare audience e vendere qualche disco in più.

Tutto ciò a dispetto della disperazione degli ultimi, dei diseredati e delle periferie costrette, ancora una volta, a vivere nel disagio e nella solitudine, spesso senza servizi sociali, sempre più isolati in palazzoni alti undici piani che di umano non hanno proprio più nulla, neanche la gioia di cantare.

Giuseppe Careri

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