Il PD ha vissuto il giorno del giudizio.

Il cosiddetto popolo democratico ha risolto il dilemma che il partito come tale non ha saputo dirimere. Non ha ritenuto di sciogliersi, liberando le differenti culture politiche che vi sono imprigionate, costrette ad intristirsi a vicenda, ed, a quel punto, il “suo” popolo ha capito che non restava altro da fare se non dissolverlo, com’è puntualmente accaduto. Ovviamente, ciò è avvenuto in rapporto a quella che originariamente intendeva essere la “ragione sociale” del PD, cioè la fusione virtuosa tra le due grandi tradizioni popolari della nostra storia politica, attorno a cui aggregare anche altri attori.

In tal senso, il PD non è mai stato un partito, nel senso proprio del termine. Cioè, come tale – né poteva essere
diversamente – è morto prima di nascere. E’ stato un apparato o un espediente elettorale e tale resta. Ad ogni modo, oggi tale apparato rappresenta la base materiale da cui la Schlein cercherà legittimamente di trarre una nuova sinistra.

Tale è la forza di quella sostanziale “geometria” che, al di là di ogni apparenza, sovraintende agli equilibri di fondo della politica e li traduce in esiti, ad un certo punto, “necessari, cioè inscritti nell’ ordine naturale delle cose. In tal modo, anche ricorrendo a soluzioni controfattuali, la politica mostra perfino di essere una cosa seria.

Bisogna ammettere che il PD è nato da gravi errori in quanto a cultura politica. Senonché, quando si sbagliano i “fondamentali” gli esiti nefasti sono inevitabili.

Non a caso l’ “opus magnum” del PD è stato quello di consegnare l’Italia alla destra.

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