É sempre più dura la stretta americana sui tassi di interesse. In settimana La FED, che è la banca centrale USA, ha annunciato un nuovo aumento dello 0,75%, il terzo da marzo quando i tassi erano a zero, dopo che l’inflazione ha sfiorato il 9%.

“Dobbiamo finire il lavoro” ha detto Jerome Powell, il presidente della Federal Reserve ed ha aggiunto che “nessuno è in grado di prevedere se questo ci porterà in recessione”.

P er ottobre sono attesi i risultati delle imprese nel terzo trimestre dell’anno ma un segnale negativo c’è già: il denaro medio termine costa di più di quello a lungo termine e di solito questo fatto precede una recessione.

Intanto le previsioni di crescita del PIL americano sono già state ridimensionate allo 0,2% (era previsto l,7).

E’ sin troppo facile ricordare che dopo i primi segnali di ripresa dell’inflazione lo stesso Powell riteneva l’aumento transitorio. Si è ricreduto, e durante l’annuale convegno dei banchieri a Jackson Hole aveva preannunciato con durezza l’intervento sui tassi, tanto da indurre la senatrice democratica Elizabeth Warren a dichiarare che provocare la disoccupazione per un milione di americani non è certo la soluzione ideale. “Se ha un metodo migliore per bloccare l’inflazione lo dica” gli ha risposto il presidente della FED.

Sin qui la notizia, che non deve indurre alla frettolosa conclusione che l’aumento  del costo del denaro avrà la stessa intensità anche in Europa. E le ragioni sono abbastanza evidenti.

Negli USA l’inflazione è la conseguenza della ripresa post covid e delle massicce immissioni di denaro che l’hanno spinta ed alla quale non hanno fatto riscontro gli investimenti. Anzi, ha alimentato lo strapotere della finanza.

In Europa la situazione è diversa.

L’inflazione è importata per l’impressionante aumento dei costi dell’energia e delle difficoltà di reperire materie prime dopo le interruzioni nelle catene di approvvigionamento delle imprese. Si tratta  quindi di una inflazione da offerta insufficiente e non da eccesso di domanda.

I costi delle fonti energetiche non rinnovabili, dell’acciaio, del grano salgono perché i prodotti non si trovano e l’aumento del gas, dei beni strumentali e del pane sono solo le conseguenze. In questi casi frenare la domanda alzando i tassi di interesse non serve per abbattere l’inflazione. Al netto ovviamente di quanto consegue per la situazione politica e militare.

Ecco perché è sbagliato sostenere che in America sono più risoluti rispetto a noi come ha lasciato intendere qualche banchiere tedesco.

La prima conseguenza delle due situazioni così diverse è la ripresa della corsa del dollaro. I rendimenti dei titoli del Tesoro americano superano ormai quelli europei e i capitali, come è ben noto, vanno sempre dove vengono meglio remunerati.

 L’euro, nel confronto, è sotto la parità come non avveniva da lungo tempo e dopo un periodo che lo aveva visto prevalere addirittura per oltre un quinto della valuta americana. Pagheremo di più le importazioni, ed anche questo concorre ad alimentare la nostra inflazione.

Guido Puccio

 

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