Viviamo un tempo che richiede una straordinaria crescita di maturità civile e la capacità di declinare la dimensione interiore della nostra libertà come “dovere” da offrire al contesto civile, ancor prima che in quanto diritto da rivendicare.
Dovremmo condurre una riflessione sulla pandemia e sulla cesura che sembra introdurre, anche analizzando in parallelo due piani, solo apparentemente separati e distinti. Il primo relativo al “vissuto” della pandemia, a livello della collettività e, per altro verso, nella percezione che ognuno ne ha entro il proprio percorso esistenziale, del tutto singolare ed irriducibile ad una esperienza genericamente comune. Il secondo in ordine agli sviluppi che la vicenda in cui siamo immersi può suggerire circa gli ordinamenti istituzionali e gli assetti politici del nostro domani.
Il virus funziona come una pialla che inesorabilmente spiana confini, azzera ogni presunta autosufficienza, riporta tutti e ciascuno all’essenziale della vita, umilia la supposta onnipotenza della tecnica, interroga la scienza circa i suoi limiti, irride il “demone” della volontà di potenza che, in ogni ambito, campeggia fino ad illuderci di aver portato a compimento la storia. Denuncia come la vita sia sì invincibile e lo dimostra anche la natura che rifiorisce attorno a noi, pur senza di noi, come se riprendesse il sopravvento sulla nostra presenza invadente e pervasiva.
Invincibile eppure, nel contempo e senza contraddizione, precaria e fragile, cosicché cammina sulla corda tesa tra questi due momenti ed il suo fascino consiste nel conciliare, giorno per giorno, queste polarità contrapposte, eppure reciprocamente necessarie. Piuttosto che la pialla, potremmo evocare l’immagine della ruspa – la “Ruspa del Capitano” – che doveva abbattere le baracche dei campi Rom ed invece sono caduti i bastioni delle nostre certezze.
Con i porti chiusi ed i respingimenti, con la tetraggine degli altri Paesi europei abbiamo voltato le spalle ai migranti – secondo alcuni, supposti vettori di chissà quali temibili morbi importati da oscure plaghe del mondo – e, come se vi agisse una sorta di nemesi storica, siamo finiti a sbattere “face to face” contro il virus giunto dalla civilissima Cina.
La pandemia mostra, anche qui, una polarità tra due estremi che, secondo il più classico degli schemi, appunto in quanto opposti, infine si congiungono. Da un lato una esperienza collettiva, comune, mai come ora, a miliardi di persone, in luoghi largamente diversi, ascrivibili a differenti culture, a distinti contesti locali, a percorsi storici dissimili, senonché vissuta da tutti contestualmente, in un tempo limitato, circoscritto e comune.
Soprattutto un’ esperienza – lo si colga da ognuno con più o meno immediata consapevolezza – che avviene, per quanti meccanismi di difesa inconscia poniamo in essere, a fronte di un’idea della morte che pone a tutti ed a ciascuno singolarmente le stesse domande, agita gli stessi timori, suscita la stessa attesa angosciosa, eppure allude alla stessa speranza. In altri termini, l’esposizione personale ad un rischio potenzialmente mortale – come mostra il quotidiano bollettino di guerra che reca centinaia e centinaia di caduti, ogni giorno – per quanto si possa cercare di scansarle, pone ineluttabilmente le domande originarie ed irrevocabili cui nessuno sfugge.
Insomma, lo si voglia o meno, nella coscienza di ciascuno, nel bel mezzo del mondo pienamente secolarizzato, dissolvendo d’un tratto le mille incrostazioni con cui avevamo cercato di sopirne il respiro, irrompe il “sacro”.
Riaffiora quella irrinunciabile dimensione trascendente della vita che avevamo smarrito e cui cercavamo di supplire – non potendo, comunque, farne a meno, essendo costitutiva di ciò che siamo – con tanti surrogati diretti a tentare, si potrebbe dire, di “immanentizzarla”, ovviamente senza riuscirci e tradendola.
Come tutto questo possa fermentare nel profondo dell’animo, quali frutti possa dare oppure su quali derive scivolare nel futuro prossimo o più discosto, è impossibile dirlo oggi. Eppure questo contatto profondo, magari fuggevole, è stato, almeno per un attimo, riacceso Insomma, la morte che, con mille artifici, avevamo scotomizzato o addirittura spinto oltre i margini del nostro campo visivo, riappare , nel suo inarrestabile intreccio con la vita, entro l’orizzonte di ciascuno; addirittura potenzialmente recatavi addirittura da un familiare, dalla persona più vicina. Peraltro, l’atomizzazione del corpo sociale che sembrerebbe, addirittura fisicamente, indotta dal “distanziamento” e’ solo apparente.
In effetti, quando un evento tocca davvero l’ interiorità delle persone, giunge al crocevia sostanziale della nostra comune umanità, nasce una sintonia di fondo che, sia pure in modo carsico, genera una sintonizzazione, favorisce un sentimento di condivisione, di reciproco coinvolgimento, di attenzione, di ascolto ed infine di solidarietà.
Se considerassimo cosa si può inferire, da questa condizione nuova, trasferendoci sul piano politico-istituzionale, più precisamente in ordine alla governabilità degli eventi che accadono attorno a noi, constateremmo come sia difficile sottrarsi alla suggestione di quanto sia ormai indispensabile costruire, almeno su alcuni fronti ben definiti, strumenti di governo globale.
Ne hanno parlato da secoli filosofi ed utopisti, per lo più alla ricerca di una improbabile pace perpetua.
Ora si passa da una generosa aspirazione, dalla contemplazione di un grande ideale, al piano di una necessità politica. L’articolazione di livelli istituzionali, corpi intermedi, livelli associativi necessari a ordinare la vita politica e civile delle nostre comunità, sempre meno potrà prescindere da una qualche concertazione globale, tutta da costruire.
Nel contempo, dobbiamo pure ammettere che, come accade in questi giorni, in ultima istanza, sono pur sempre i comportamenti individuali di ciascuno a risultare determinanti. Nella complessità della società globale, si intrecciano tali e tante contraddizioni che nessuno può risolvere per decreto, bensì trovano il punto di composizione del conflitto solo nello spessore della coscienza personale di ognuno.
Ne deriva che abbiamo bisogno di una straordinaria crescita di maturità civile e della capacità di declinare la nostra libertà come “dovere”, ancor prima che sul piano dei diritti da rivendicare. “Dovere” di essere liberi significa coltivare quell’equilibrio e quel tanto di serenità interiore che va pur costruita e rappresenta la condizione necessaria a conservare la propria capacità critica e la propria autonomia di giudizio, per una cittadinanza attiva e non gregaria.
Domenico Galbiati

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