La sofferenza del debito nel Sud globale è in aumento, mettendo a rischio gli equilibri sociali e politici di quei Paesi. Secondo le stime del FMI, al 29 febbraio 2024, dei 68 Paesi a basso reddito (LIC) per i quali il Fondo conduce analisi di sostenibilità del debito, 9 sono già in difficoltà e 51 sono ad alto rischio di difficoltà. Le Nazioni Unite riferiscono che 19 LIC spendono più per gli interessi sul debito che per l’istruzione e 45 spendono più per gli interessi sul debito che per la sanità. Il debito estero africano, alla fine del 2023, superava i mille miliardi di dollari e l’ammontare degli interessi pagati nel 2024 è stato, finora, di 163 miliardi di dollari, contro i 61 miliardi di dollari del 2010. Lo Zambia è stato il primo Paese ad adottare il maldestro meccanismo del Common Framework – l’iniziativa presa dal G20, insieme al Club di Parigi, per fornire soluzioni ai Paesi poveri fortemente indebitati. Il risultato è stato che lo Zambia ha bensì potuto ristrutturare il suo debito, ma il tasso di povertà è ora salito al 60%. Lo stesso sta accadendo, più o meno, in Ghana e in altri Paesi. Quindi, un primo punto che va sottolineato è che è certamente possibile ristrutturare il debito, ma al prezzo di un aumento della povertà. Un compromesso questo inaccettabile, sotto il profilo sia etico che politico.

Venticinque anni fa si è celebrato un Giubileo con un ampio condono del debito estero. Eppure, eccoci di nuovo qui, con troppi Paesi alle prese con un debito insopportabile. La responsabilità è sia dei debitori che dei creditori, come sottolineò all’epoca, con grande coraggio, papa Giovanni Paolo II: “Tra le molteplici cause che hanno portato a un debito estero schiacciante, vanno segnalati non solo gli alti tassi di interesse, frutto di politiche finanziarie speculative, ma anche l’irresponsabilità di alcuni governanti che hanno destinato somme enormi del prestito ottenuto all’arricchimento di individui specifici, invece di essere utilizzate per sostenere i cambiamenti necessari allo sviluppo del Paese”. (La Chiesa in America, 1999). Sarebbe bene fare tesoro di tali parole, se veramente si vuole sradicare la piaga del debito estero. E’ la struttura “usurocratica” dell’economia globale che occorre oggi combattere.

Un gruppo di 22 Paesi in difficoltà finanziaria, tra cui Pakistan e Ucraina, è diventato negli ultimi anni la maggiore fonte di entrate nette per il FMI, con pagamenti che superano i costi operativi del Fondo. L’istituzione, nata nel 1944 a Bretton Woods con lo scopo di favorire la stabilità finanziaria, sta, di fatto, chiedendo a Paesi che sono a malapena in grado di provvedere ai propri bisogni essenziali, di prendersi cura del resto del mondo. Uno dei fattori causali è legato alla politica delle sovrattasse (surcharges) che il FMI impone ai Paesi che ritardano a rispettare i tempi della restituzione dei prestiti ottenuti. Imporre questo tipo di penalizzazioni è palesemente antitetico alla missione propria del Fondo, oltre a non avere alcuna giustificazione di natura strettamente economica, come invece qualche maldestro economista continua a ritenere.

Nel 2020, dieci sono stati i Paesi a pagare queste sovrattasse al FMI; nel 2023 il numero è salito a 22. E, cosa più grave, il tasso base del FMI è passato da meno l’1% a quasi il 5%. Non c’è bisogno di essere esperti per cogliere le implicazioni pratiche, Ecco perché è urgente rivedere completamente i modi in cui le analisi di sostenibilità del debito vengono condotte. Queste analisi hanno importanti ricadute per i negoziati sul debito, caricando sulle spalle dei debitori oneri e gravami eccessivi. Si badi che non si tratta di analisi meramente tecniche, come spesso accade di leggere, poiché postulano specifici giudizi di valore. È giunto il momento di smascherare questi presupposti, piuttosto che attardarsi sui tecnicismi.

Che fare allora? Non è sufficiente cancellare il debito se non si modificano i fattori causali che tendono a generarlo. Ecco alcuni suggerimenti.

Primo. Porre termine al neocolonialismo. Nonostante quel che si tende a credere, se è vero che il colonialismo è ufficialmente morto, non v’è da pensare che pratiche di stampo colonialista non tendano a persistere ancor oggi. Penso, in particolare, al triste fenomeno del land grabbing (accaparramento delle terre) che affligge soprattutto l’Africa sub-sahariana e l’America Latina. Inoltre va eliminato il “commercio triangolare” che oggi è inserito nelle “supply chains”. Occorre anche esigere dalle 70.000 multinazionali oggi presenti nel mondo che quando operano nei paesi dell’era coloniale applichino ai propri lavoratori gli stessi standard sociali di quelli in atto nei propri paesi.

Secondo. Riscrivere gli statuti di Organizzazioni Internazionali quali il FMI, la Banca Mondiale, il WTO, l’OMS e altri. Le regole di funzionamento di tali organizzazioni vennero scritte nel 1944 a Bretton Woods, avendo a cuore il processo di sviluppo dei paesi occidentali. Da allora solo modificazioni marginali sono state apportate. Di qui la rivolta del Global South contro l’aumento endemico e sistemico delle disuguaglianze sociali e culturali ascrivibili al fatto che le istituzioni economico-finanziarie e culturali non hanno natura universalista, perché diversi sono i contesti nazionali ai quali vanno applicate. Come ha recentemente affermato il Ministro degli Esteri dell’India, i problemi dell’Occidente non sono più i problemi del mondo.

Terzo. La riforma delle Nazioni Unite. Va eliminato il diritto di veto riconosciuto finoraai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e sostituito da una procedura di votazione come quella di Borda. Soprattutto occorre dare vita ad una Assemblea Parlamentare delle Nazioni Unite (“United Nations Parliamentary Assembly”) sul modello della proposta avanzata dalla ONG “Democracy Without Borders”. Le NU vennero create per preservare la pace, ma senza dotare tale importante organizzazione dei poteri necessari allo scopo. L’idea, infatti, è che non basta preoccuparsi solo della sicurezza degli Stati; occorre pensare anche alla sicurezza delle popolazioni.

Quarto. Progettare un modello di integrazione per i migranti che vada oltre le mere politiche di accoglienza. Sono oltre duecento i milioni di persone che vivono, da disperati, la condizione del migrante. I due modelli di integrazione finora applicati hanno fallito e pour cause. Si tratta del modello multiculturalista, di derivazione anglosassone, e del modello assimilazionista di matrice francese. È il modello del dialogo interculturale quello verso cui andare. Ecco perché è urgente dare vita ad una Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) sulla falsariga dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che assicuri il riconoscimento – nel senso del thimos platonico – delle diversità etniche, religiose e culturali.

Sono consapevole delle difficoltà insite nell’attuazione di proposte del genere. Ma non bisogna avere paura delle difficoltà, perché anche l’acqua del mare ha bisogno degli scogli per sollevarsi più in alto! Vi sono persone che studiano l’arte della guerra -come veniva chiamata nella Cina antica – per essere meglio preparati al combattimento. Ma sono molti di più quelli che si occupano di guerra per scoraggiarne e per impedirne lo scoppio. La pace non è un obiettivo irraggiungibile, dato che la guerra non è un dato di natura, ma è il frutto marcio di persone che la vogliono. E allora sviluppano ideologie che insegnano ad odiare: il vicino, il diverso, il povero, spargendo ovunque i semi di quella sottocultura dell’aporofobia dei cui effetti devastanti sono piene le cronache. Occorre allora resistere, con saggezza e tenacia, perché tali persone non abbiano l’ultima parola nella formazione dell’opinione pubblica e soprattutto non arrivino a occupare posizioni di potere politico. Come si sa, l’odio è il più coesivo dei sentimenti politici, perché, più di ogni altro sentimento, tiene assieme una moltitudine e ne fa una totalità obbediente. Ecco perché il populismo, di ogni colore e sotto ogni latitudine, va combattuto con ferma convinzione.

Stefano Zamagni

About Author