Illuminante. Semplicemente illuminante il racconto che J.D. Vance, il Vicepresidente eletto degli Stati Uniti, fa di sé, del mondo in cui è nato, delle sue origini e dei suoi valori, della sua avventura umana. Un disvelamento che ne fa, a soli 40 anni, un esempio riuscito del sogno americano e un’autentica rivelazione antropologica sull’americano bianco povero.

Al fondo Vance rivendica, nella sua autobiografia (“Elegia americana”) il suo essere un “hillbilly”, un montanaro, un buzzurro. L’equivalente del nostro terrone che ha cercato fortuna nell’industria pesante per poi ritrovarsi coinvolto, a distanza di alcune generazioni, nella desertificazione sociale causata dai processi di deindustrializzazione. E’ questo il destino della popolazione della cintura montuosa degli Appalachi che corre parallela, da Sud a Nord, con la costa atlantica degli Stati Uniti. Abitata prevalentemente da bianchi di origine irlandese e scozzese caratterizzati da una scontrosità personale e da una violenza familiare gratuita quanto interiorizzata e normalizzata, divenute devastanti nell’incontro con la modernità (dalla promiscuità sessuale all’esplosione delle droghe di ogni tipo).

In questo mondo chiuso, dove ci sono due fedi antiche (la religione dei padri e la Nazione americana), si vive nella povertà più avvilente e deprimente. Ma soprattutto nella certezza assoluta di non poter fare di più e che il proprio destino sia segnato da una inevitabile precarietà. Familiare (tante ragazze madri e donne sole con molti compagni occasionali), educativa (scuole statali normali e nessuna realistica possibilità di accedere alla costosissima cultura universitaria), lavorativa (l’orizzonte è solo quello del lavoro manuale, prima nei campi, poi nelle miniere e nelle acciaierie che però sono state ridimensionate lasciando il posto al più bieco e disperato assistenzialismo).

E’ proprio questo mondo che Vance racconta, con un realismo a volte disperante. Ma lui ha la “fortuna” di avere una nonna “hillbilly” un po’ matta che lo educa ripetendogli all’infinito che a lui “nulla è precluso”. L’esatto contrario del pensiero dominante di un mondo di soli poveri e di lavoro povero (quando c’è) e di attesa messianica di un aiuto dall’alto attraverso programmi sociali e sussidi statali, elargiti soprattutto dai governi democratici e che gli stessi conservatori alla fin fine non disdegnano. E così, nonostante una madre drogata, un padre biologico sparito, una lunga lista di mariti improbabili della mamma, risse scolastiche alla minima offesa, trasferimenti di città in città fra il Kentucky e l’Ohio, profonde incertezze personali, mille incomprensioni e altrettante domande esistenziali, J.D. riesce a trovare una sua strada che lo porterà a finire gli studi superiori. Poi ci penserà il corpo dei marines e la missione in Iraq a dargli piena consapevolezza dei propri mezzi e ad aiutarlo a pagare le tasse per iscriversi addirittura a Yale (una delle grandi università americane), laurearsi in Legge e avviare una carriera che lo proietta nel ceto medio americano. Con al suo fianco la compagna di studi universitari che lo ha reso padre e lo ha accompagnato nella corsa alla Casa Bianca dove ora vivrà all’ombra ingombrante di Trump.

Se questa è la storia avvincente di un “hillbilly” per sempre, sta di fatto che il suo approdo nel ceto medio e oggi addirittura nell’empireo della politica, non sminuisce la sua coscienza di “neo conservatore” a modo suo, come Vance ama definirsi. Conservando gelosamente quel suo mantra conservatore Famiglia-Fede-Cultura (esattamente in questo ordine) che la dice lunga sul peso del suo passato. Ovvero l’essere vissuto senza un padre e con una madre a dir poco inaffidabile ed essere stato salvato dalla sua famiglia e in particolare dalle sue donne: l’inflessibile nonna materna che gli ha fatto da madre, l’adorata sorella, la dolce zia materna.

Ma in quel trinomio così diverso dal Dio-Patria-Famiglia sin troppo sbandierato (nella sua illusorietà largamente contraddetta dalla secolarizzazione) dai conservatori europei, c’è tutta l’avventura umana della sua gente (i bianchi poveri) come dei neri e degli ispanici. I quali, però, pur essendo più poveri dei bianchi poveri, hanno più speranza nel futuro. Ma tutti insieme, secondo J.D., hanno bisogno di più famiglie stabili e accudenti, di credere di più in un Dio giusto e misericordioso, di crescere culturalmente. E tutto questo ha un valore fondamentale non solo per credere di più in sé stessi e sulle proprie possibilità, ma per tornare soprattutto a contribuire alla crescita degli Stati Uniti. Infatti in questo “hillbilly” che come tanti altri ha scelto il fronte conservatore (dopo generazioni di operai degli Appalachi tenacemente democratici) c’è l’orgoglio di tornare a fare la propria parte per contare di più.  Da qui anche un sostanziale disprezzo verso chi vive di sussidi pubblici, impersonato nella figura retorica della “regina del Welfare”: la madre single che tira a campare con gli aiuti governativi e che non ha mai cercato uno straccio di lavoro.

Dunque, c’è in Vance una singolare appropriazione, in chiave conservatrice del motto kennediano: “Non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Una linea che lui sintetizza in chiave antropologia e sociale (prima che politica) con queste parole fulminanti rivolte alla propria gente, i bianchi poveri, immersi nella povertà relazionale, religiosa, sociale e culturale: “Noi abbiamo creato i problemi, noi dobbiamo risolverli”.

Con questo spirito J.D. Vance, con la sua bella famiglia, sbarca alla Casa Bianca. Lavorerà a fianco di un magnate creatosi Presidente degli Stati Uniti, a cui ha portato in dote milioni di voti di bianchi poveri. Rispondere alla fiducia che gli hanno accordato e aiutarli a uscire dalla povertà (non con i sussidi, ma con il lavoro, i servizi e la cultura) e a salire sull’ascensore sociale, è una scommessa che fa tremare i polsi. Forse anche ad un “hillbilly” quarantenne, laureato ed ex marine, con studio alla Casa Bianca.

Domenico Delle Foglie

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