Anche il Parlamento è in ferie. Alla ripresa si aprirà una partita nuova. Il Governo, d’ora in poi, non verrà valutato in ragione degli indici di gradimento crescenti o comunque mediamente alti, bensì sulla capacità di volerli e saperli mettere in gioco, perseguendo scelte “di sistema” che, non avendo l’immediata appetibilità di quelle resesi necessarie finora, non lo premieranno in termini di consenso, almeno al momento.
Giunge, insomma, il tempo delle scelte strutturali e di medio-lungo periodo che, come spesso succede, possono avere in sé elementi d’impopolarità o perché modificano assetti consolidati – il che può disturbare determinati interessi settoriali – oppure perché i frutti positivi di questi nuovi indirizzi si colgono necessariamente molto più avanti, una volta che siano maturi al punto giusto. Il credito di cui un governo gode non è, peraltro, fieno da mettere in cascina, bensì un talento da investire, una risorsa da spendere e da rischiare.
Se ricorressimo alla leggi della fisica, si potrebbe dire che un governo non lo si può giudicare né dalla posizione, né dalla velocità all’istante, bensì dall’ “impulso”, cioè dal rapporto tra la forza che esercita e l’intervallo di tempo in cui concentra l’applicazione di tale forza al sistema su cui intende incidere. Insomma, “tempus fugit” e bisogna stare sul pezzo, capire qual’è la finestra temporale che le condizioni date offrono ed occuparla, prima che irrevocabilmente si chiuda, con la determinazione necessaria, con le scelte giuste al momento giusto.
Per il governo Conte, dopo il match corpo a corpo con il virus, sostanzialmente vinto ai punti – almeno per ora – pur dopo due o tre devastanti k.o. subiti n qualche round, giunge il tempo della strategia. Dopo aver ottenuto, con l’enorme ampliamento del debito pubblico concesso dal Parlamento e con la provvista finanziaria europea, una disponibilità di risorse neppure immaginabili in altri tempi.
Senonché, un progetto che abbia l’ambizione di “rovesciare” in positivo il rovescio della pandemia, cogliendo l’occasione per risalire la china di un degrado in cui l’Italia andava progressivamente affondando da ben prima della diffusione del virus, va al di là della stessa responsabilità del governo, di questo governo o di qualunque altra maggioranza si fosse trovata a guidare il Paese in questa fase.
Non è più tempo dei “re di denari”, di quella sorta di “voto di scambio” istituzionalizzato cui abbiamo assistito con l’elargizione degli 80 euro di Renzi, di quota 100 di Salvini o del reddito di cittadinanza di Di Maio. Neppure è più tempo di “Dpcm” o comunque di decretazione d’urgenza a raffica e di umiliazione del Parlamento. Del resto, i cardini su cui far ruotare questa strategia di rilancio del Paese, sono gli stessi che devono reggere un sentimento nuovo di condivisione e di responsabilità degli italiani; in sostanza, la questione è di ordine etico, non meramente politico-programmatico. Mai come in questo momento l’ammonimento del Presidente Moro circa la “stagione dei diritti e dei doveri” va intesa non quale doverosa esortazione, bensì come la denuncia di un dato strutturalmente necessario alla tenuta morale e civile del Paese.
Del resto – anche a prescindere dall’attuale momento – a mano a mano ci inoltriamo nel tempo della complessità, è sempre più evidente come non vi siano modelli istituzionali, dispositivi strutturali o apparati di alcun genere che, di per se’, meccanicamente, diano risposta a quei nodi della “governabilità” di sistemi sociali che mostrano un numero di variabili intrinseche tendenzialmente incalcolabili e fortemente interconnesse ed interdipendenti. E’ solo l’incredibile plasticità del giudizio critico della persona che sa districarsi in una giungla altrimenti impenetrabile.
E non è l’ultimo dei motivi per cui è quanto mai opportuna, oggi, la presenza di un soggetto politico di cultura personalista. Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano.
Chiediamoci piuttosto verso quali obiettivi incardinare la straordinaria disponibilità di risorse di cui il Paese potrà disporre nel suo immediato futuro. C’è un criterio di fondo che possa sovra-intendere alle determinazioni che si dovranno assumere, anzitutto consentendo di selezionare i campi prioritari di intervento, permettendo di capire come, privilegiando quel determinato approccio, si generano a cascata rilevanti effetti positivi lungo un’intera filiera che vale la pena sostenere? Può forse aiutarci il fatto di assumere come vincoli politici e, ad un tempo, morali due condizioni oggettive da cui non possiamo prescindere.
Anzitutto, stiamo accendendo un enorme debito che, per quanto possano essere favorevoli i suoi tassi e spalmabile sul lungo periodo il rientro, graverà sulle future generazioni. Ne dovrebbe conseguire che si debba disegnare una strategia incardinata su di loro, sulle prospettive, sulle opportunità che pensiamo di poter, fin d’ora, predisporre a loro favore.
In secondo luogo, queste disponibilità derivano da una condizione, determinata dalla pandemia, cioè da un evento che, di per sé, evoca una trasformazione radicale del nostro modo di vivere. Ne deriva che si tratta di risorse da non disperdere in mille rivoli, ma da concentrare sui nodi tematici e strutturali più’ rilevanti per lo sviluppo di lungo termine del Paese. Su tutto, una politica studiata ad hoc, in tutte le sue articolazioni, per età minori della vita, per l’educazione e per il lavoro.
Nella società della conoscenza: la capacità critica e la creatività dei giovani ed il lavoro per tutti, fonte di reddito, di ruolo sociale, di consapevolezza di sé e della propria dignità. Un “lavoro” da ripensare, in cui non più il “carbone e l’acciaio” della prima comunità europea, bensì l’ informazione e la conoscenza rappresentano la materia prima di quei processi produttivi in cui forza-lavoro, strumenti, mezzi e capitali rinnovano la loro mai interrotta dialettica.
Domenico Galbiati

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