Pubblichiamo la nota del Movimento per la vita italiano sulla sentenza della Corte costituzionale in materia di eutanasia
In un contesto che non approviamo in alcun modo, ma col quale comunque dobbiamo fare i conti, tre ci sembrano gli aspetti da valorizzare della sentenza costituzionale che depenalizza in presenza di alcune condizioni l’aiuto al suicidio.
Il primo è senza dubbio il fatto che morire non è mai un diritto: la Corte Costituzionale ha sì depenalizzato l’aiuto al suicidio in alcune circostanze, ma nessun medico ha il dovere di aiutare qualcuno a suicidarsi, anche se rientra nelle situazioni particolari individuate dalla Consulta.
Una grande differenza con la legge sull’aborto, dove abortire non è un diritto di per sé, ma è previsto l’obbligo di eseguire l’“intervento” sulla base del documento «firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta».
Per il suicidio assistito non c’è quindi bisogno di prevedere l’obiezione di coscienza, perché «resta affidato, pertanto alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato»: il medico semplicemente potrà valutare liberamente di volta in volta come comportarsi, senza dover ricorrere a compilazione di moduli o stesura di documenti in caso di rifiuto a collaborare, come è invece nel caso dell’aborto volontario.
Si può perciò dire che, nonostante tutto, resta sullo sfondo la consapevolezza che la medicina, per restare fedele a se stessa, non può farsi dispensatrice di morte.
Ci pare che la libertà lasciata al medico dalla sentenza 242/2019 non possa non avere ripercussioni sulla discutibilissima legge 219/2017 sulle DAT, matrice da cui è discesa dapprima l’ordinanza 207/2018 e adesso la sentenza 242/2019. Anzi, in questo senso, la Corte offre un’importantissima chiave di lettura della legge 219 laddove non prevede l’obiezione di coscienza del medico, ma al tempo stesso, contraddittoriamente, da un lato prevede la vincolatività delle DAT e, dall’altro, si riferisce alla deontologia professionale che esonera il medico dall’adempiere richieste che contrastano con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico.
In altre parole, la Corte riconosce la liceità dell’aiuto al suicidio in alcune circostanze, in coerenza e continuità con la legge 219 sulle DAT: logica vorrebbe che allo stesso modo, se il medico è libero di aderire o meno alla richiesta di aiuto al suicidio, lo dovrebbe essere allo stesso modo anche rispetto ad analoghe, eventuali richieste di interruzione di sostegni vitali nelle DAT, che invece sono considerate vincolanti.
Condividiamo quindi la considerazione del Centro Studi Livatino secondo cui «se vi è continuità fra la disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento e l’aiuto al suicidio, come la Consulta ribadisce in tutta la sentenza, tale omogeneità impone di riconoscere analogo spazio al pieno dispiegamento della coscienza del medico a fronte della esecuzione di dat, pur se la legge n. 219/2017 non riconosce espressamente il diritto di obiezione. In tal senso la Corte sembra risolvere il contrasto fra quanto, nella legge 219, prevede l’art. 4 co. 5, che obbliga il medico a dare esecuzione alle dat, e quanto invece dice l’art. 1 co. 6, che permette al medico di sottrarsi a tale esecuzione se gli viene richiesto qualcosa che contrasta con la deontologia».
Un secondo aspetto importante riguarda l’inserimento di un effettivo percorso di cure palliative e terapia del dolore tra le note condizioni necessarie per poter accedere al suicidio assistito. Sarebbe un «paradosso», scrive la Corte, «non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative». Il tema delle cure palliative e della terapia del dolore è fondamentale e, al di là di ogni affermazione a favore, c’è molto da fare per rendere praticamente accessibili queste cure e terapie a tutti su tutto il territorio nazionale. Eppure, purtroppo, c’è una legge, la n. 38 del 2010 che ancora non è né abbastanza conosciuta né, soprattutto, applicata in ogni aspetto.
Una terza riflessione merita il passaggio sulla verifica sia delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio, sia delle relative modalità di esecuzione: esse sono affidate alle strutture pubbliche, integrate dall’«intervento di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità». Cioè, il SSN si fa carico di controllare l’accesso e le procedure mediche per il suicidio assistito, e niente viene detto su dove debba essere eseguito e su chi lo debba eseguire.
Ora, se da un lato non convince affatto che il SSN, cioè la collettività, si faccia in qualche modo carico di una prestazione mortifera, dall’altro lato va detto che così viene impedito che si facciano largo strutture private dedicate al procurare la morte su richiesta: non saranno possibili offerte “tutto compreso” da parte di gruppi di interesse, ed ogni singola richiesta deve superare il vaglio di strutture pubbliche che non ne traggono guadagni. Insomma, in questo modo se il SSN è obbligato a verificare le condizioni per accedere e le modalità di esecuzione, non è però tenuto a garantire le strutture e il personale per l’assistenza al suicidio.
A fronte di tutto questo diventa quindi prioritario un impegno a 360 gradi sul piano culturale, formativo, educativo, per promuovere accoglienza, solidarietà e autentiche relazioni di cura, ma anche sul piano concreto per sostenere le realtà che si occupano di accudire e proteggere amorevolmente quanti sono afflitti da malattia, disabilità, sofferenza, situazioni che esigono cura e premura, non morte procurata.
I medici sono in prima linea e la loro responsabilità è innegabile e notevole perché in gioco sono ancora una volta l’inscalfibile dignità umana e il sollievo dalla sofferenza.