Il “surplace”, esercizio di millimetrico equilibrio e, si potrebbe dire, di immobilismo funambolico – e non è necessariamente un ossimoro – precede, anzi è funzionale allo scatto che conclude, in modo bruciante, una sfida tutta giocata sullo spunto di velocità da spendere nell’ultimo giro della corsa.

Obiettivo del surplace è stare un passo dietro l’avversario per costringerlo alla prima mossa e dosare su di lui la propria reazione, per beffarlo, con un colpo di reni, sul filo di lana. A Milano ne faceva sfoggio, sulla pista del mitico Velodromo Vigorelli che oggi reca anche il suo nome, Antonio Maspes, a cavallo tra anni ‘50 e ‘60. Anche a Montecitorio, i due schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra, fanno surplace da lunedì ed è tempo che se la giochino. Non è escluso che siano ormai prossimi al punto, a meno che non caschino, perfino senza volerlo, in un infernale gioco dell’oca, tale per cui basta una dichiarazione infausta per spedire tutti all’indietro di parecchie caselle.

L’incredibile intreccio di incontri, dichiarazioni ufficiali ed ufficiose, offerte o strappate, parole soffiate oppure gettate lì per vedere che effetto fa, interpretazioni perfino della mimica facciale dei vari protagonisti, enfatizzazioni mediatiche dei silenzi oppure della più lieve increspatura in un flusso continuo di informazioni che talvolta scorrono, tal altra si arrotano a mulinello su sé stesse, creano una matassa talmente indecifrabile non solo per gli osservatori, ma perfino per chi ci sta dentro da protagonista. Comunque, sta forse prevalendo – ed è il minimo sindacale – la consapevolezza che la corda rischia di spezzarsi per cui è almeno opportuno, per l’una e l’altra parte, pareggiare il conto ed uscirne limitando i danni, piuttosto che tentare il colpo gobbo.

La “spallata”, insomma, che risponde all’istinto del “ganassa” che, secondo il dialetto milanese, tanto caro ai leghisti ed effettivamente ricco di grande espressività, è colui che, nei gesti, nella mimica e nella postura, aggiunge un di più al tono sbruffone che, invece, il “bauscia” limita ai modi ruvidi e spicci del linguaggio verbale. Del resto, con la spallata c’è, in un modo o nell’altro, il rischio di farsi male. Ad ogni modo, siamo entrati in un vortice che, se pure avesse – e non è affatto escluso – una sua geometria nascosta e, cioè una logica, magari paradossale, ma pur destinata prima o poi ad imporsi, crea in chi osserva da fuori, cioè nella generalità della pubblica opinione, l’impressione di un procedere a tentoni in cui le cose via via si accumulano ed i cosiddetti leader anziché guidare un processo, tentano, tutt’al più, di non essere scaricati giù dalla cresta di un’onda che sembra montare su se stessa e muoversi da sé. In una tale condizione, il rischio è che, a qualunque soluzione infine si giunga, il nuovo Presidente sia oppure appaia l’approdo di una deriva, piuttosto che di un virtuoso cammino in ascesa verso una indicazione davvero fortemente unitaria ed autorevole.

Di ora in ora c’è chi sale e chi scende ed oggi – tardo pomeriggio – sembra tornare in auge Draghi. Apparentemente Salvini gioca il cosiddetto ruolo di “king-maker”. In effetti, tiene sì la scena, eppure ripete quello schema di mero “zapping” tattico che lo ha contraddistinto in altri passaggi critici della legislatura. Insomma, mostra ancora una volta una carenza strategica preoccupante ed un sostanziale grave deficit di leadership che, prima o poi, pagherà, cominciando dalle dinamiche interne al suo partito. In sostanza, non si sa cosa voglia, ma soprattutto sembra non saperlo lui.

Sull’altro versante, Letta gioca di rimessa e la sta conducendo bene, per quanto le fratture interne al PD ed alla sua coalizione gli rendano difficile, al di là dell’atteggiamento del centro-destra, spuntarla a favore di Draghi. Comunque, lascia a Salvini – ed in fondo la Meloni, pur in tutt’altra logica, fa la stessa cosa – abbastanza corda perché si impicchi da solo. In quanto a Conte, l’impressione è che stia consumando la sua precaria leadership in una sorta di vendicativo karakiri fatto di ripicche e di risentimenti, che sono l’esatto contrario di ciò che qualifica un “capo politico” come si chiamava una volta chi veniva chiamato a guidare i 5 Stelle. E questo a prescindere dal fatto che poi, alla fin fine, l’ultima parola, in questo ventre molle della politica italiana, tocca pur sempre a Grillo.

Ad ogni modo, una volta insediato al Quirinale il nuovo inquilino, si renderà necessario passare alla moviola l’intera settimana per cercare di ricavarne un giudizio più ponderato sulla condizione di salute del nostro sistema sistema politico e dei singoli attori che lo abitano. Intanto, è chiaro – salvo conversioni non in vista, ma neppure da escludere – come i partiti abbiano, almeno fin qui, considerato Draghi sostanzialmente alla stregua di un corpo estraneo, una protesi temporanea, ma, di fatto, un che di alieno da rigettare ed espungere.

Il viluppo autoreferenziale in cui il sistema si è incapsulato è tale da dover rifiutare tutto ciò che, introducendo una misura oggettiva – ad esempio, una solida, non equivocabile competenza – tra i criteri di regolazione delle reciproche convenienze, interferisce con quella intercambiabilità delle parti di un tutto in cui la tradizionale e principale connotazione distintiva – destra/sinistra – rischia di avere, ormai, un carattere meramente convenzionale ed astratto.
In definitiva, il sistema politico mostra tutti i sintomi della grave, terminale patologia che lo assedia e da qui
sarà pur necessario ripartire.

Domenico Galbiati

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