La coesistenza, sia pure temporanea, di due “Manifesti dei valori” è la plastica raffigurazione della profonda crisi in cui versa il PD, non riconducibile, a poche settimane dal rito delle primarie, solo alla contesa tra le correnti, che, se mai, rappresenta l’approdo della dissonanza strutturale che sta nelle stesse fondamenta del partito.
Quando il confronto interno ad una forza politica si incaglia su aspetti di carattere formale, norme e regolamenti, interpretazioni più o meno capziose dello statuto, questo non avviene per la cattiva volontà degli uni o degli altri.
Si tratta piuttosto dell’ esito di un impoverimento della dialettica politica tra le parti, tale per cui l’ intero sistema viene inevitabilmente sospinto verso una inarrestabile ed obbligata deriva involutiva. In una condizione del genere, le primarie – tanto più “aperte”, come le adotta il PD – finiscono per apparire, più che altro, l’escamotage con il quale, in qualche modo, il partito esterna nodi irrisolvibili nel suo ambito e delega ad una entità “altra”, non ben definita, la loro risoluzione.
A fronte di una questione contesa ed irriducibile all’ esercizio di una normale dialettica tra le parti, si ricorre a questo giudizio sovraordinato, affidato ad una sorta di “prova del fuoco” – quasi si trattasse di un’ordalia – che faccia prevalere chi ha il destino o il favore degli dei dalla sua parte. In tal modo, le primarie finiscono per rappresentare una facile – ed anche un po’ ipocrita – via di fuga per un gruppo dirigente che non sa o non vuole o non può assumere fino in fondo la responsabilità che gli compete, il compito di chiarire quale sia la prospettiva che intende indicare al Paese. E’ l’ intero partito ad affidarsi ad una platea elettorale che lo solleva – o meglio, in effetti, lo espropria – dal l’onere di interrogarsi seriamente circa la propria ragion d’essere e la propria natura, affidandosi all’ alea di una partecipazione che quanto più è vasta, tanto più finisce per essere sfrangiata ed indistinta. Pare, insomma, che il PD riesca a sopravvivere solo a condizione di permanere in questo “limbo” di posizioni che possono coesistere solo nella misura in cui pagano alla loro reciproca tolleranza, il prezzo di una sostanziale evanescenza.
Ogni consultazione elettorale seria presuppone che si sappia con certezza quale sia l’elettorato attivo.
Solo il riferimento ad un campo predefinito consente, anche sul piano meramente quantitativo della distribuzione dei consensi, di valutare oggettivamente il responso elettorale. In caso contrario, tutto avviene dentro un caravanserraglio in cui si entra oppure se ne esce impunemente, secondo una postura meramente individuale che non risponde a nessuna ricerca di una possibile convergenza. Anche qui, sul piano del metodo, si cade, appunto, in una modalità sgranata, laddove un partito esigerebbe luoghi di riflessione che via via aggreghino una comunità di valori, di pensiero politico e d’azione. Peraltro, se si volesse cercare un riferimento comune a tutti i candidati, un tratto fatto proprio da ognuno dei quattro e sostanzialmente scontato per tutti, lo si rintraccia in quel sottofondo di pensiero individualista, di sostanziale impronta radicale che poco o nulla ha a che vedere con la vocazione popolare che al PD avrebbero dovuto recare le più rilevanti culture politiche che hanno concorso alla sua nascita. Molto resterebbe da dire, infatti, sulla sostanziale giubilazione della componente popolare che del PD avrebbe dovuto costituire uno degli assi portanti.
Il PD paga e continuerà a pagare l’errore di fondo da cui è nato: il ritenere che culture politiche differenti e talvolta antitetiche potessero essere “fuse” in un unico corpo, laddove avrebbero dovuto – a fronte di una destra, tale fin d’allora, al di là delle pretese edulcorazioni centriste che non hanno mai contato nulla – allearsi sì, ma in un rapporto di “coalizione”. Il che avrebbe voluto dire, anziché pretendere di nasconderle sotto il tappeto, assumere piena consapevolezza delle diversità culturali di fondo, prima che immediatamente politiche – anzitutto tra democristiani e comunisti – per lavorare ciascuno all’affinamento della propria visione e, nel contempo, alla ricerca di una mediazione di alto profilo, che fosse capace di intercettare la domanda di trasformazione, evocata dal tempo nuovo che ci è dato vivere.
Le differenze sono una bomba a orologeria oppure una palude in cui affondare, se vengono negate. Diventano una ricchezza se vengono riconosciute ed affrontate a viso aperto.
Domenico Galbiati