Il pluralismo politico dei cattolici è una faccenda seria e va preso in seria considerazione. Anzitutto per capire, essendo un dato acquisito, se e come sia possibile o meno ricavarne, piuttosto che una dissipazione, una chance in più da offrire, anzitutto, al nostro Paese. Ma, più in generale, al nostro tempo globalizzato e confuso, secolarizzato ed informe perché riscopra come rintracciare, anche sul piano della proposta politica, quel senso ultimo delle cose, senza cui la vita diventa insipida e talmente poco attraente.

Si tratta di un argomento che, almeno su queste pagine, non scopriamo oggi ed, anzi, è stato oggetto, in più occasioni, di qualche approfondimento. Ad esempio, ma non solo, attraverso una lunga nota che risale al luglio dello scorso anno e cercava di riflettere attorno ad un possibile “sinodo politico dei cattolici”, cioè, senza profanare una parola da riservare a ben altro contesto, in ordine a quel tanto di “camminare insieme”, che può essere preservato, anche sul terreno impervio e spesso sconnesso dell’azione politica, pur muovendo da posizioni differenziate. Assumendo che la fede comune, se accolta con spirito sincero, stabilisca una connessione sufficientemente profonda, cosicché “trascendendo” le controversie della politica, in qualche modo, la relativizzi, conferendole la dimensione e la postura che le competono e non oltre. In buona sostanza, come ripeteva spesso Martinazzoli, la politica è importante, ma la vita è più importante della politica.

E’ necessario, anzitutto, per inoltrarci su un terreno comunque problematico e difficile, stabilire un criterio di non reciproca demonizzazione ed, anzi, di vicendevole rispetto. Da custodire e conservare al di là o al di sopra della legittima contesa, anche quando si facesse aspra. E’ questo, del resto, il senso del reciproco riconoscersi nella comunità ecclesiale.

Nessuno ha il diritto di buttare alle ortiche a cuor leggero il patrimonio di questa comune appartenenza, pur contrastata sul piano politico, solo per declinarla, appunto, in chiave di contrapposizione pregiudiziale. Non si tratta né di buonismo né di formale compiacenza o di cortesia, ma di consapevolezza, per chi vuol davvero farsene carico, di un fondamento originario comune che riconosciamo importante, eppure mai autoreferenziale o identitario, così da arroccarci in una postura che separi i credenti da coloro che pur non hanno il dono della fede. Si possono condividere o meno certe manifestazioni del proprio credo religioso sul piano politico – ad esempio, tanto per essere chiari, il vezzo di esibire rosari – né determinati indirizzi che ci sembrino contrastare con una visione cristiana dell’uomo e della vita né, tanto meno, si possono condividere le inflessioni di stampo “radicale” cui si adattano altri cattolici a sinistra, eppure quando si assume di voler considerare come l’impegno politico nasca dal radicamento nella propria fede, bisogna prendere atto che ci si affaccia su quella profondità insondabile che abita l’inviolabile interiorità di ognuno, laddove nessuno ha il diritto di intromettersi e tanto meno di giudicare.

Insomma, c’è un limite da osservare, da ristabilire in una società che tuttora ed anzi oggi a maggior ragione, presenta quel carattere “smodato”, quella smagliatura che, fin dagli anni ‘30, Simone Weil lamentava e faceva risalire , appunto, allo smarrimento del “limite”. Ma, soprattutto, c’è da capire se vi sia un luogo o un sentiero dove, pur nella disparità delle posizioni politiche, i cattolici possano ancora riconoscersi in un cammino condiviso.

E’ legittimo pensare che non sia lo spazio in cui reciprocamente confermarsi nelle proprie convinzioni, bensì quel percorso che, secondo l’invito di Papa Francesco, ci conduca verso le periferie dove sono ferite la giustizia e la libertà, dove le disparità sociali umiliano la dignità della persona. Insomma, ci si riconosce incontrando gli altri, accettando di essere messi in discussione, non contemplando, quasi con larvata supponenza, la presunta compiutezza del proprio abito mentale.

Questo significa, anzitutto, transitare dal cosiddetto “pre-politico” alla franca, esplicita assunzione di una responsabilità prettamente “politica” che si misura – ed accetta di essere misurata – nell’esercizio attivo dell’impegno a costruire la città, quale luogo in cui, come ammoniva il Cardinal Martini, ognuno di noi, incontrando gli altri, trova sé stesso. Vuol dire, conseguentemente, dar vita non al cosiddetto “partito cattolico”, ma piuttosto ad una forza organizzata nel segno dell’ispirazione cristiana. Dove ci si assuma la fatica di mostrare nei gesti dell’azione politica e nel linguaggio che li accompagna, nelle motivazioni che ne danno conto, come i valori che orientano, anche sul piano della proposta politica, i nostri comportamenti, siano talmente ricchi di intensità’ umana e di passione civile da risultare accessibili ed accattivanti anche per chi non condivide con noi il dono della fede, così da rappresentare l’approdo di un possibile impegno comune.

Forse è esagerato sperarlo o addirittura si scivola nell’utopia? Eppure se, nell’ambito della comunità ecclesiale, i cattolici sapessero mostrare, entro un impegno condiviso di discernimento, come opzioni politiche differenti non
compromettano ciò che è per loro essenziale nella comune visione della vita e della storia, darebbero uno straordinaria testimonianza di civismo ad un Paese che ne ha bisogno davvero.

Domenico Galbiati

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