Giorgia Meloni nel discorso di replica al Senato ha detto con molta chiarezza come la politica debba avere, anzitutto, una “visione”, un disegno complessivo circa l’ approdo cui intende condurre l’Italia, nella prospettiva di un tempo medio-lungo e come, solo entro questa cornice, i particolari atti di governo acquistino il loro senso compiuto e la loro efficacia.

Va riconosciuto che in questo atteggiamento c’è del metodo, c’è, piaccia o meno la sua declinazione ideale e programmatica, una cultura della politica ed il tratto di una capacità di leadership che a Meloni va riconosciuta, per quanto sia apparso evidente come debba, fin dai suoi primi passi, necessariamente far buon viso a cattivo gioco nei confronti di alcuni totem programmatici della Lega.

Una “visione” è data da una cornice di poche e precise linee di orientamento, che creano una sorta di campo magnetico, il quale, a sua volta, in virtù della sua forza intrinseca, dispone ed organizza le tessere del mosaico programmatico in un insieme strutturato. La coerenza del tutto è data da un cardine centrale attorno a cui ruota l’intero sistema.

Ripercorrendo gli interventi di Meloni tra Camera e Senato si coglie come il cardine, in effetti, ci sia e tanto più dirimente, quanto meno sbattuto frontalmente in prima pagina, ma quasi lasciato maturare tra le righe, in modo suadente, proposto come possibile tema di confronto alle opposizioni, più che imposto, per quanto accompagnato dalla “minaccia”, verrebbe da dire, che comunque la maggioranza di destra su questo cammino di riforma della Costituzione, in chiave “presidenzialista”, intende procedere, sia pure da sola, cioè nella consapevolezza di dover eventualmente affrontare, a conclusione dell’iter parlamentare, la prova referendaria.

A questo punto, si pongono due considerazioni che le opposizioni parlamentari se, congiuntamente o meno, volessero darsi un indirizzo “politico, anziché affidarsi alla caciara o al “filibustering”, dovrebbero fare proprie.
Considerazioni che debbono valere anche per le opposizioni che stanno fuori dal Parlamento e vivono nel pluralismo della società civile.

La prima considerazione, di ordine generale: è tempo di finirla con la pretesa che ogni maggioranza parlamentare possa sentirsi autorizzata a “manipolare” la Carta Costituzionale. Le Costituzioni – così la nostra – sono il frutto di quel particolare “stato di grazia” che un popolo raggiunge in particolarissimi momenti della sua storia e vivono di questo respiro. Solo in un momento di ispirazione altrettanto alto, ci si dovrebbe sentire autorizzati e capaci di rimetterci mano, soprattutto nei suoi tratti più rilevanti, laddove, ad esempio, si dispone quale debba essere l’ordinamento istituzionale e democratico del Paese.

In una fase di difficile transizione come l’attuale, la Costituzione va, piuttosto, riletta e meditata per trarne valori, criteri e suggestioni utili e necessarie ad affrontare il particolare momento di transizione che stiamo vivendo.
Seconda considerazione, più pertinente all’ attuale contingenza: l’opposizione alla destra deve assumere, anche in tal caso, come “cardine” del proprio impegno, il contrasto fermo e determinato al “presidenzialismo”.

Bisogna rendersi conto – ma su questi temi si renderà necessario ritornare ripetutamente – che è sbagliato
ed illusorio ritenere che una società complessa possa essere più efficacemente governata attraverso posture di accentramento del potere. Se pure non appare evidente a prima vista, è piuttosto vero il contrario: quanto più si sovrappongono le une alle altre le contraddizioni di un contesto civile intricato, tanto più è indispensabile la distribuzione diffusa, ubiquitaria di una partecipazione attiva, costante, continuativa alla vita politica della comunità civile, da parte dei cittadini, il che non può certo esaurirsi nella delega quinquennale al “capo” di turno.

A maggior ragione, se si considera che, così come lo pone la destra, il presidenzialismo non ha solo una valenza tecnico-istituzionale, bensì assume, nel solco della sua cultura, una forte valenza politica come introduzione, nel costume della nostra convivenza civile, di un “principio d’autorità”, dotato, appunto, di una valenza di ordine generale e concepito da taluni, come già osservato in una nota precedente, come una sorta di rivincita nel confronti del principio democratico, popolare e partecipativo, cui si ispira la nostra Carta.

Domenico Galbiati

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