Qualche tempo fa, su “Rinascita popolare”, Lorenzo Dellai ha scritto: “C’è poi una sfida culturale ancor più decisiva: come conciliare la spinta al ‘primato dei diritti individuali’ (che va assunto come segno del nostro tempo, in rottura con la stagione precedente, connotata dal primato dei diritti collettivi) con la necessità di un ‘comune sentire’ e di una democrazia che non degradi nell’individualismo e non perda la sua cifra comunitaria”. Credo che si tratti di una sfida impossibile perché il “primato dei diritti individuali” porta inevitabilmente a quell’individualismo inconciliabile con ogni riferimento comunitario.

Alain Touraine (in Critica della modernità) afferma che “nel percorso della modernità, si è verificato il passaggio dal religioso al politico, quindi dal politico al sociale e da quest’ultimo ad un individualismo orientato al consumo, con un’impressionante crescita della ricerca dell’interesse personale e del semplice piacere: si afferma così come unico fine l’individuo che diventa, invece della società, il principio di definizione del bene e del male”. Mettere al primo posto i diritti individuali senza alcun richiamo ai doveri significa autorizzare gli esseri umani ad accantonare le proprie responsabilità nei confronti della società di cui fanno parte. Ne abbiamo oggi un chiaro esempio in coloro che rifiutano di farsi vaccinare.

Privilegiare i diritti individuali non significa, come viene frequentemente detto, disporre di un’arma per contrastare una concezione totalitaria in cui il singolo viene annullato nella collettività (lo Stato, la classe, la razza) privandolo di ogni diritto. Vuol dire, piuttosto, ignorare il valore della comunità in cui l’essere umano si realizza pienamente come persona nel legame con gli altri membri di questa. In questo senso, l’individuo (una monade autosufficiente) non può essere equiparato alla persona (animale politico, secondo la definizione aristotelica), e la società degli individui non si contrappone al collettivismo, ma al vivere in una dimensione comune, o sociale. L’ideologia del primato dei diritti individuali fa dell’uomo un essere astratto, senza legami, senza radici, senza appartenenze a un luogo, a una comunità e a una cultura.

Alain Touraine aggiunge che i legami di appartenenza fondati su una cultura e una memoria condivise sono gli elementi che fanno dell’essere umano un soggetto capace di fare scelte autonome, sottraendosi alla massificazione. Infatti, chi prioritariamente rivendica i diritti individuali non avverte il conformismo dilagante, non si sottrae ai condizionamenti e alle seduzioni dell’odierna società globale dominata dalle logiche di mercato. In un mondo abitato da individui, l’economia mette in un angolo la politica, il consumatore sostituisce il cittadino, la ricerca del benessere fa perder di vista il vivere bene in armonia con gli altri e con l’ambiente. Nessuno si sente più parte di un insieme, sia esso la famiglia, il paese, o il popolo.

Alla “famiglia tradizionale”, si stanno sostituendo le convivenze, o le “nuove famiglie”, costituite da due adulti e talora da figli, non sempre di entrambi i conviventi, spesso a rischio di rottura con il conseguente venir meno di ogni relazione fra i suoi membri: come scrive Anthony Giddens, “con la fine del rapporto amoroso, la persona più intima torna di colpo ad essere un estraneo o un’estranea”. Un clima che investe anche la cosiddetta famiglia tradizionale, anch’essa divenuta fragile, precaria, dove la crisi e il fallimento sono in agguato. Una situazione derivante dal rifiuto di ogni responsabilità e di ogni dovere, e che ha come prima conseguenza la scelta di non avere figli, o di posticiparne l’arrivo privilegiando la carriera o il godimento del tempo giovanile. Non meravigliamoci dunque se oggi, nella società occidentale, ci troviamo in presenza di una denatalità dai tratti patologici che prefigura il declino di questo mondo.

Jeremy Rifkin ha scritto che, se le attività degli esseri umani non sono più collegate ad un territorio di appartenenza, diventa impossibile conservare il concetto di solidarietà collettiva e il concetto di lealtà ad un Paese, requisiti fondamentali per la sopravvivenza del senso di coesione nazionale e sociale. In sua assenza, la società diventa un assemblaggio aleatorio di individui che si associano volontariamente solo per difendere i propri interessi e per il tempo necessario allo scopo, ma sempre pronti a disfarsi di ogni vincolo perché restano sempre in competizione gli uni con gli altri. Non c’è più spazio per la solidarietà.

Oggi, interpreti di questo mondo sradicato sono in particolare coloro che si riconosce nella condivisione delle idee liberiste e libertarie, molti dei quali fanno parte di una élite meritocratica, che anticipa con i suoi comportamenti le tendenze destinate presto a diventare di massa. I suoi componenti sono individui ormai privi di un senso di appartenenza a un ambito nazionale o territoriale che, per cogliere le opportunità di carriera o di guadagno, si recano ovunque queste si presentino. Abbandonare i luoghi in cui sono nati non crea loro problemi perché non sono partecipi della cultura e delle tradizioni di un certo posto (a partire da quello natale), ma innalzano la bandiera del cosmopolitismo, o meglio di quella cultura del tempo presente, ovunque identica nei luoghi che frequentano, dove incontrano individui a loro similari.

Dobbiamo chiederci da che cosa siano state prodotte le trasformazioni che nell’arco di una generazione hanno condotto a un cambiamento profondo della società, a seguito del quale è stato messo in soffitta il primato dei diritti collettivi. Un primato che non connotava solo la stagione precedente all’attuale, ma, si potrebbe dire, l’intera storia dell’umanità se consideriamo che le comunità in cui gli esseri umani hanno da sempre vissuto erano e sono delle collettività.

Vari fattori sono intervenuti nel determinare il cambiamento della società e del mondo stesso. Certamente ci sono state le innovazioni tecnologiche che hanno modificato il modo di vivere liberando in notevole misura uomini e donne dai lavori faticosi in cui erano impegnati per larga parte della giornata; ci sono stati i nuovi mezzi di comunicazione che ci hanno messo in contatto con mondi lontani; c’è stata la globalizzazione con la crescente circolazione di persone, merci, informazioni. Ma tutto ciò non ha portato automaticamente al trionfo dell’individualismo. A determinarlo, ha avuto un ruolo centrale l’affermazione di una ideologia che, avvalendosi del sostanziale monopolio degli strumenti dell’informazione di cui godono i suoi sostenitori, ha diffuso il culto della ricchezza e ha promosso merci e consumi. Come ha scritto Luciano Gallino in Finanzcapitalismo, in tal modo l’ideologia neoliberale ha penetrato ogni ambito della società fino a modificare la stessa natura antropologica delle persone.

Dellai dice che bisogna vivere nel proprio tempo, capire le nuove necessità ed essere aperti alle opportunità che il presente ci offre, riconoscendone come connotato il “primato dei diritti individuali”.

Ma vivere nel presente non significa accettare passivamente e acriticamente tutto quanto ci viene proposto come “nuovo”, rinunciando a una propria visione del mondo e a una propria scala di valori. Il percorso della modernità non è già tracciato. In proposito, ha scritto Anthony Giddens: “Stiamo vivendo l’estrema radicalizzazione della modernità: è un’epoca in cui si esplorano strade e possibilità non ancora sperimentate, rimettendo in discussione tutto, compresa la modernità stessa”. C’è quindi spazio per costruire un domani diverso da quanto l’attuale ideologia dominante sembra imporci.

Viviamo in un tempo in cui si profilano molteplici criticità (ambientali, climatiche, sanitarie, demografiche, sociali) prevalentemente prodotte proprio da quelle trasformazioni che hanno, in qualche misura, concorso alla nascita dell’individualismo odierno. Per affrontarle, molto andrà fatto, percorrendo un cammino in una direzione diversa dall’attuale, una direzione non più contrassegnata dall’ideologia neoliberale dominante. Lo aveva ben compreso Barbara Spinelli già anni fa, quando, di fronte alle modificazioni climatiche (allora fuori del campo visivo delle classi dirigenti politiche ed economiche), ha scritto: “Bisogna essere consapevoli che per condurre la battaglia in difesa dell’ambiente, perirà una parte essenziale dell’esperienza liberale: quella parte che, a cominciare dalla rivoluzione industriale, ci ha abituati a credere nel progresso illimitato, nel cittadino-consumatore libero di fare quello che gli piace, nell’aspirazione a una felicità individuale indipendente dall’effetto che essa ha sulla Terra e sull’umanità”.

Di fronte alle difficili sfide che ci attendono, diventa necessario rivedere proprio le carte dei diritti individuali ricercando un equilibrio con la definizione dei doveri e con le esigenze delle collettività e delle comunità in cui gli esseri umani conducono la loro esistenza.

Giuseppe Ladetto

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte ( CLICCA QUI )

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