Al netto dell’ovvia reazione al rialzo del prezzo del petrolio al raid statunitense che ha portato all’uccisione del generale iraniano Soleimani (i più pessimisti parlano di barile a 150 dollari se come extrema ratio Teheran dovesse chiudere lo stretto di Hormuz), l’aumento della tensione geopolitica in Medio Oriente come può impattare sui mercati esuberanti di questo inizio anno? Ma, soprattutto, esiste il rischio che quanto accaduto all’aeroporto di Baghdad possa tramutarsi nel detonatore di una vera e propria correzione dei corsi azionari?

“La geopolitica è tornata prepotentemente sul tavolo principale e questo rappresenta uno sviluppo che può avere implicazioni crossassets decisamente severe“, scriveva nella sua nota agli investitori Salman Ahmed, chief investment startegist presso la Lombard Odier, cui faceva eco uno degli analisti di punta di Credit Agricole,
Valentin Marinov, a detta del quale “il sentiment legato al rischio dovrebbe restare fragile, anche perché nel mirino di tutti c’è una dinamica tutta incentrata sul comportamento delle Banche centrali di fronte a questo nuovo focolaio di tensione: reagiranno abbastanza in fretta? E, soprattutto, avranno in arsenale abbastanza mezzi per far fronte a un’eventuale escalation di instabilità?”.

Ovviamente, tutto ora dipende dalla magnitudo dell’eventuale reazione iraniana all’attacco Usa e, susseguentemente,
all’atteggiamento che questa susciterà non solo in Washington ma anche negli altri Paesi dell’area mediorientale, già oggi schierati in un risiko che vede Teheran come protagonista di molti conflitti proxy, sia in Siria che in Libano che in Yemen contro il nemico saudita di sempre.

Ma senza dover attendere i tempi della diplomazia belligerante, quale potrebbe essere il catalizzatore pressoché immediato di rischio, vista anche la reazione da modalità risk-off vissuta immediatamente dal prezzo dell’oro, dallo yen e dai Treasuries Usa?

Da almeno dieci giorni, prima che lo showdown fra Usa e Iran entrasse nel vivo, una dinamica cominciava a spaventare gli analisti, nella fattispecie quella rappresentata da questi due grafici.


HFR/Nomura

A far paura era l’andamento della linea nera che schizza verso l’alto nella prima figura e che rappresenta l’attuale esposizioni di hedge funds e CTA – ovvero operatori ad alta frequenza, fondi che si muovono solo in base ad algoritmi – al mercato azionario Usa. In particolare, i futures di quello Standard&Poor’s 500 che nel 2019
appena concluso ha segnato uno stellare +27,3%.

Al netto di questo, ora è il secondo grafico a mettere la questione in prospettiva: la linea grigia rappresenta con diversa colorazione la medesima esposizione degli hedge funds all’azionario appena descritta ma viene comparata con quella azzurro acceso, la quale invece è il proxy dello SKEW. E cos’è lo SKEW? E’ il cosiddetto “indicatore del cigno nero”, di fatto un tracciatore di prezzo che mostra l’aumento o il calo del costo richiesto dal mercato per proteggersi da un possibile crollo, in questo caso equity. Più gli hedge funds entrano in gioco, più sale quel costo.
Già di per sé, questa dinamica dovrebbe far paura.

Primo perché gli hedge funds salgono normalmente in giostra per far soldi rapidi ed escono prima dei tonfi. Comunque sia, difficilmente si imbarcano in investimenti di lunga durata, operando come cassettisti o pensionati.
Secondo, perché dimostra implicitamente come la natura stessa di questo rally sia totalmente falsa e artificiale, gonfiata prima dagli steroidi dei buybacks azionari e poi – in maniera eclatante – dalla liquidità della Fed tornata operativa sui mercati.

Non a caso, l’aumento continuo dello SKEW è andato in overdrive proprio attorno a metà ottobre: ovvero, un mese dopo l’intervento emergenziale della Federal Reserve sul mercato interbancario e in quasi contemporanea con il lancio del nuovo QE, annunciato proprio l’11 di quel mese. E il detonatore? E il possibile epicentro  dell’esplosione /implosione? A operare da canarino nella miniera del mitologico “effetto palla di neve” potrebbe essere per alcuni analisti il rendimento del Treasury a 10 anni, tipico bene rifugio quando la tensione geopolitica sale e proprio
l’avversione al rischio porta a una fuga dall’azionario verso i lidi più rassicuranti del reddito fisso di qualità: statunitense, tedesco o paradossalmente giapponese. Già in prima battura, il raid Usa ha portato il rendimento a calare da 1,88% a 1,83% di inizio contrattazioni. E proprio in ossequio alla dinamica risk-off tipica dei momenti di turbolenza politica, l’attuale condizione potrebbe portare in tempi rapidi a un raffreddamento dell’entusiasmo degli hedge funds per l’azionario e quindi a un ridimensionamento – anche minimo, percentualmente parlando – della
loro esposizione.

Il problema è che quando si muovono gli hedge funds, tutto accade alla velocità della luce. Non fosse altro per l’automatismo degli algoritmi e i rischi sulla catena di controparte, i quali comportano chiusure forzate e immediate di posizioni. Il rischio reale e immediato, quindi, ha un solo nome: flash crash, un tonfo rapido e senza preavviso che innesca a sua volta una catena infinita di margin calls capace di far avvitare al ribasso l’intero complesso delle equities.


Nomura

E come mostra questo grafico contenuto nel report elaborato ad hoc da Nomura, in una situazione come quella attuale, il rischio di flash crash è duplice. Ovvero, può sorgere da un problema di scarsezza di liquidità o essere innescato da una dinamica sugli ordinativi.

Nella fattispecie, l’impossibilità appunto di chiudere posizioni per mancanza di liquidità nei rapporti di controparte o l’eccesso di vendite che il mercato non riesce a tamponare con il flusso di ordinativi di acquisto in senso contrario. Insomma, nel primo caso l’imputato principale – ex ante – può essere il classico incidente da fat finger, ovvero un fattore anomalo che interviene su un mercato affollato e tremendamente esposto a leva che fa impazzire il trading ad alta frequenza. Nel secondo caso, invece, non si tratta di un errore nell’esecuzione di un ordine ma della sovrabbondanza di ordinativi in un unico senso del trading. Comunque sia, l’effetto “a cascata” appare assicurato.

Nelle condizioni attuali, ancora più del solito. C’è quindi da temere un tonfo in tempi brevi? Non è detto. Le due dinamiche in atto – esposizione enorme degli hedge funds al rally delle equities e contemporaneo aumento dei costi di protezione da inversione dei corsi – possono anche limitarsi, per ora, a operare appunto come canarini nella miniera. Lo SKEW in rialzo, infatti, è apparso finora alla maggior parte degli analisti proprio come una mossa per
controbilanciare l’eccessiva esuberanza collettiva, quindi potrebbe continuare in maniera “innocua” e precauzionale ancora per un po’ la sua salita di livello.

Ma il rischio vero sta nella possibilità che l’iperattivismo nel posizionamento difensivo si tramuti nel cosiddetto consensus trade, ovvero un qualcosa che viene percepito come obbligato, un’operatività binaria e di massa con l’entrata in giostra sull’ottovolante del mercato equity. A quel punto, subentrerebbe l’imponderabilità dei mercati: ovvero, il risvolto psicologico.

Se il sentimento ribassista legato allo SKEW dovesse essere vissuto come in aumento netto su quello rialzista del
posizionamento lungo sul mercato azionario, allora potrebbe davvero imporsi qualcosa di poco preventivabile. Soprattutto se nel frattempo, i soggetti più aggressivi – hedge funds e CTA – avessero davvero cominciato a chiudere posizioni, senza dare troppo nell’occhio in prima istanza e a puntare con sempre maggiore convinzione su un
atteggiamento short. Ovvero, scommettere in tempo su un calo repentino dei corsi per fare soldi al ribasso.
Ed ecco che, in una dinamica da “maneggiare con cura” come questa, va a innescarsi ora il carico ulteriore di una tensione geopolitica estrema, capace potenzialmente di operare da accelerante nell’incendio doloso che rischia di mandare in fumo l’ottimismo – a tratti parossistico – che ha accompagnato Wall Street e gli altri mercati nell’ultimo trimestre.

La conferma implicita è giunta in tempo reale dalla Turchia, dove le banche a controllo statale hanno venduto fra 1 e 1,5 miliardi di dollari per bloccare il tonfo delle lira innescato appunto dalla fuga di massa da assets rischiosi, dopo che la valuta di Ankara aveva toccato il minimo da 7 mesi contro il dollaro.

Il tutto, in meno di mezza giornata dall’inizio dell’escalation e dopo che la Turchia sembrava aver superato la crisi valutaria della scorsa estate, anche grazie al prestito della Cina. Insomma, instabilità assoluta. Con un’aggravante, contenuta in questi ultimi due grafici. Il primo ci mostra quale sia stato il prezzo per un fine anno/trimestre
sereno sui mercati, ovvero 414 miliardi di dollari in liquidità immessa dalla Fed tramite aste Repo e Term (256 miliardi) e acquisti di T-bills in seno al nuovo QE (157,5 miliardi).


Questo il costo della stabilità, pagato affinché le scadenze fisse per le istituzioni finanziarie non drenassero tutto il cash già in circolo e portassero il sistema interbancario overnight a grippare come accadde lo scorso settembre, spedendo i tassi al 10% e innescando riflessi diretti proprio su Wall Street.

Il secondo grafico, però, ci mostra come dal prossimo 6 gennaio, alcune delle operazioni Term compiute fino qui andranno a maturazione: il giorno della Befana per 25 miliardi di dollari, il 7 gennaio per 28,8 miliardi di dollari, il 10 gennaio per 18 miliardi e così via.


Insomma, liquidità che verrà implicitamente drenata dai mercati. Proprio ora. Ovviamente, con la sua operazione “bazooka” di metà dicembre, la Fed aveva contemplato al rialzo i rischi, operando per eccesso: da qui a fine gennaio sono previste infatti altre tre aste Term (oltre 1 giorno di scadenza) per un totale ognuna di 35 miliardi di dollari
di disponibilità, oltre a quelle Repo quotidiane e agli acquisti mensili del QE.

Basterà questo implicito cuscinetto, questo safe buffer, per placare i mercati, ora che i venti di guerra soffieranno in senso contrario alle mosse – più o meno estorte dallo stalking della Casa Bianca – di Jerome Powell? La prima riprova è ormai a portata di mano, già dal 6 gennaio.

E sullo sfondo, la sagoma da variabile ad alto tasso di impazzimento e di tensione a lungo termine delle presidenziali Usa.

Mauro Bottarelli

Pubblicato su Businnes Insider

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