Due decenni non sono pochi, e comunque non sono da ritenersi un insufficiente lasso di tempo per chi voglia fare un bilancio dell’impatto e delle conseguenze di un evento come l’Undici Settembre.  Non solo se si guarda al quadro politico, ma anche se si cerca di comprenderle, tali conseguenze, in una prospettiva di più lungo periodo e di più ampio respiro, cioè in una prospettiva storica. E due decenni  sono appunto trascorsi da quel mattino newyorkese del 2001 in cui una violentissima e piratesca scorribanda aerea colpì e affondò non solo il più alto grattacielo del mondo, ma tutto un gruppo di ben scelti obiettivi-simbolo dell’America, e del suo primato nel mondo.

Che nulla, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, sarebbe più stato come prima, era immediatamente apparso evidente a tutti; è anzi rimasto sino ad oggi un convincimento ben radicato, cosicché affermarlo è praticamente diventato un luogo comune. E ciò, anche se alcuni aspetti particolarmente oscuri della vicenda sono stati quasi dimenticati, come gli attacchi all’antrace,  per i quali è stato dapprima individuato un sospetto,  un Americano,  la cui morte in prigione ha però posto praticamente termine ad ogni indagine sugli aspetti non internazionali, ma esclusivamente interni,  di quella tragica vicenda.

 Vendicarsi colpendo se stessi

L’attenzione si è invece focalizzata, da un lato sulla guerra in Afghanistan e sulla caccia ad Osama Bin Laden, e dall’altro sul moltiplicarsi delle misure di sicurezza,  soprattutto all’interno degli Stati Uniti, come il Patriot Act,  l’espansione dei poteri della CIA e dell’FBI, la Creazione del Department of Homeland Security, la promulgazione del Military Commission Act, eccetera.

Per questa radicale stretta securitaria non sono ovviamente mancate  le critiche, ma è un fatto innegabile che essa sia stata accettata dalla grande maggioranza dell’opinione pubblica americana (ed occidentale in genere) come una dolorosa necessità, soprattutto nel quadro di una  allora assai di moda concezione di “clash of civilizations” . Solo pochissimi hanno fatto notare il tragico paradosso di un sistema sociale che, vittima di attacco esterno, ha reagito con cambiamenti – come la creazione del centro di detenzione di Guantanamo – che danneggiavano il proprio sistema di valori anziché quello dell’avversario, da sempre abituato, per sua sfortuna, a poteri autocratici legittimati dal fanatismo religioso.

Proprio sul piano dei valori, peraltro, la tragica vicenda dell’11 settembre, e delle sue conseguenze ideologiche e culturali, va inserita in un quadro di più lungo periodo, quello che si delinea e prende forza alla metà del Settecento, quando un gruppo di filosofi e di utopisti riesce a convertire alle proprie idee una élite decisa a cambiare il mondo.

Traendo esempio da quanto realizzato nei secoli precedenti, quando l’uomo – provando e riprovando – era riuscito non solo a dare una spiegazione razionale ai fenomeni naturali, ma anche a controllarli e a dominarli, sottoponendoli infine al proprio utile e benessere materiale, questi filosofi pensavano che fosse possibile organizzare in modo razionale non solo il mondo materiale e quello animale, ma la stessa convivenza degli esseri umani, la stessa società. Nel secolo successivo ne erano conseguiti, in Europa, dapprima la costruzione di altari alla “Dea Ragione” e poi la diffusione dell’idea che fosse possibile dar vita a niente meno che un socialismo “scientifico”.

E’ stata un’idea fortunata quanto utopica, e che ha dominato a lungo nei cuori e nelle menti dei popoli di cultura cristiana, prima di entrare in crisi. La sconfitta militare della Francia rivoluzionaria, nella prima parte dell’Ottocento, non aveva infatti potuto dimostrare la non realizzabilità di tali ambiziosi disegni; gli eserciti delle Monarchie – si direbbe oggi – avevano potuto vincere, ma non avevano potuto convincere. E bisognerà aspettare gli anni finali del secolo successivo perché il collasso, cent’anni dopo, del blocco comunista e poi l’implosione – per motivi tutti interni al sistema – dello stesso regime e dell’Unione sovietica ponesse invece la sua non-realizzabilità sotto gli occhi del mondo intero. Una non-realizzabilità che ha anche messo in moto – nei trent’anni successivi –l a crisi, tuttora in pieno svolgimento, dei regimi socialdemocratici con cui in Occidente si era cercato di tener lontane le classi più umili dal fascino esercitato dall’idea comunista. Dopo il 1989-91, appare insomma evidente la cessata necessità di mantenere – nei sistemi sociali dominati dall’impresa privata – tanto le regole di uno Stato democratico ed assistenziale, quanto il consenso popolare che da queste derivava.

La guerra perpetua

Al mutato regime interno che si profila per i paesi dell’Occidente come per quelli dell’ex blocco comunista,  che si evolvono tuttavia a partire da differenti modelli e da situazioni sociali diverse, corrisponde ovviamente un differenze modo di condurre le relazioni internazionali. L’esplosione di esibita e plateale violenza che sono stati l’11 settembre e le sue conseguenze sembrano indicarne le caratteristiche.

Con l’evidente declino degli organismi universalistici e para-parlamentari, come le Nazioni Unite, ha coinciso il moltiplicarsi di iniziative di segno opposto, e spesso altrettanto dimostrative. E a tale declino ha anche fatto seguito, l’emergere di raggruppamenti di “paesi che contano”, come il G7 o il G20, perché più ricchi, più armati o più popolosi degli altri. Si è così praticamente affermata una situazione istituzionale planetaria che non assomiglia più il nulla a quella descritta da Emanuele Kant nel suo “Trattato sulla pace perpetua”, opera principe di tutta la scuola di pensiero orientata ad organizzare la società degli uomini sulla base della razionalità scientifica, così come era stata dominata ed organizzata la natura.

Al contrario, oggi, in un mondo retto da una cosiddetta “governance globale” anziché degli elettorati di ciascun paese sovrano,  in un mondo caratterizzato non solo dai già citati centri di detenzione tipo Guantanamo, (il quale esiste ancora oggi, come sempre, in una situazione di vuoto giuridico, e di finto vuoto di sovranità),  ma anche dalla scelta strategica seguita dal presidente democratico Obama. Una scelta  caratterizzata non più dalle classiche formule dì guerra “Stato contro Stato” oppure “Popolo contro popolo”, bensì dalla identificazione e da colpi precisamente mirati contro singoli individui, o piccoli gruppi identificati come a pericoloso  carattere terroristico. Un approccio che è ancora oggi largamente  seguito, e che sembra la principale eredità di quella spettacolare dichiarazione di guerra perpetua e diffusa che fu, contro le Torri Gemelle di New York, l’attacco dell’11 Settembre.

Giuseppe Sacco

About Author