La ricerca del sapere e la creatività caratterizzano da sempre gli esseri umani: non si possono, pertanto, mettere limiti a tali requisiti. È vero, e infatti nessuno intende porre limiti in tale ambito. I limiti da rispettare riguardano il superamento degli equilibri inerenti alla stabilità di ogni costruzione: il Creato di cui siamo parte, la natura umana (con le sue componenti biologica, razionale e culturale), la socialità alla base di ogni comunità e il pluralismo culturale che fa ricco il mondo.

Abbiamo già più volte parlato delle problematiche ambientali, diventate le criticità che maggiormente minacciano il nostro futuro, e che già oggi fanno sentire i loro effetti pesantemente negativi con il riscaldamento climatico. Qui l’esistenza di limiti invalicabili si pone con evidenza.

Al centro del rapporto del MIT sui limiti dello sviluppo, redatto negli anni Settanta per conto del Club di Roma, vi era appunto il concetto di “limite”. La Terra non può sostenere nel tempo una continua crescita, in primis della popolazione, e poi di tutto quanto il termine “sviluppo” comporta: consumo di materie prime, produzione di inquinanti, ecc. Il rapporto sollevò forti critiche e obiezioni sia a sinistra sia a destra. A parte rilievi marginali, l’argomento principe sosteneva che, grazie alla scienza e alla tecnologia, non ci sono limiti che l’umanità non possa superare. Oggi vediamo che le cose non stanno così, e con molto ritardo stiamo misurandoci con le gravi situazioni scaturite dall’aver ignorato quell’avvertimento.

In vari articoli, si è già parlato delle conseguenze sulle condizioni di vita del genere umano prodotte dal superamento dei limiti ambientali, occorre pertanto considerare altri ambiti minacciati dal non rispetto dei limiti.

Iniziamo dal Creato, la cui salvaguardia non si motiva solo per le ricadute negative che la sua manomissione ha sugli esseri umani. Ha valore in sé, e come tale ci impone dei limiti. Noi non siamo i padroni del Creato, ma i suoi custodi (ce lo hanno ricordato Benedetto XVI e papa Francesco). L’ecatombe di specie animali e vegetali a cui da tempo assistiamo rivela quanto siamo lontani dall’esercitare un tale ruolo.

Tuttavia, un tale fenomeno non sembra destare preoccupazione: così da sempre vanno le cose, viene detto. Infatti, il pensiero oggi prevalente, riconducibile al liberalismo, ritiene che la natura non sia una realtà immutabile, ma un prodotto storico culturale: la storia è fatta di continui interventi tecnologici dell’uomo sul mondo che lo circonda, e non è possibile quindi distinguere ciò che è naturale da ciò che non lo è. Ora, è vero che nel corso della storia l’uomo ha modificato in significativa misura l’ambiente naturale utilizzando i mezzi tecnici a sua disposizione; tuttavia mai è giunto, come accade oggi (grazie ai potenti strumenti messi in campo), a provocare l’ecatombe sopra ricordata. Quindi è venuto il tempo di un chiarimento in materia.

Di fronte alla potenza distruttiva sul Creato della moderna tecnologia, l’umanità deve assumere, come chiede Hans Jonas, la responsabilità etica nei confronti della biosfera e di tutte le creature che la compongono, oppure continuerà a considerare i viventi non umani solo come oggetti privi di un proprio valore, da utilizzare nel suo interesse o da eliminare se ritenuto vantaggioso? Nel primo caso, si impone una limitazione al nostro agire nei confronti della Natura.

Quel pensiero, riconducibile al liberalismo, per il quale la natura non è una realtà immutabile ma un prodotto storico culturale, estende agli esseri umani il rifiuto del concetto stesso di “naturale”. La natura dell’uomo consiste nel non avere natura e nel determinare la propria storia attraverso le proprie scelte. Infatti, in base a tale concezione, la mente, alla nascita, è ritenuta una tabula rasa: ogni elemento presente in quella dell’adulto si origina interamente dall’esperienza e dalla trasmissione culturale. Pertanto, non si può parlare di natura o di naturale a proposito dell’essere umano e dei suoi comportamenti. È una rappresentazione ormai contraddetta dalla ricerca biologica: la neurofisiologia, l’etologia, la genetica comportamentale e l’antropologia evolutiva ci dicono che gli uomini sono per natura creature sociali e che fattori genetici (gli istinti) possono influenzare in qualche misura i nostri comportamenti. Ma questo fatto non tocca un diffuso sentire che, in questo campo e non solo in questo, resta impermeabile ai risultati della ricerca scientifica quando in contrasto con il proprio orientamento ideologico.

Già l’illuminismo si era posto il compito di dare un ordine razionale al mondo, di progettare e plasmare, con la scienza e la tecnica, il futuro, e di emancipare il genere umano dai vincoli di una natura diseguale e arbitraria per consentire a ogni soggetto di vivere secondo un proprio progetto di vita. Oggi, a tal fine, si è imposta la volontà di superare anche le barriere biologiche che ci limitano e di prendere nelle nostre mani il controllo della nostra evoluzione grazie agli strumenti biotecnologici di cui disporremo in sempre maggior misura.

Giovanni Fornero, in Bioetiche a confronto, illustrando i principi che stanno alla base di quella che definisce la “koiné laica”, inserisce fra questi la disponibilità della vita nel senso che la nostra specie, utilizzando gli strumenti offerti dalle scoperte biotecnologiche, potrà, se ritenuto opportuno, manipolare radicalmente se stessa, tanto da originare una specie nuova. Viene, pertanto, accettata ed anzi auspicata l’eugenetica purché non gestita dallo Stato.

A complicare questo quadro si inserisce il transumanesimo. Con esso, si mette in opera una ulteriore mutazione antropologica che si aggiunge alle pratiche eugenetiche, poiché mira a fare dell’uomo un essere digitalizzato, sempre connesso con la rete, ma di fatto sempre più isolato dai suoi simili in quanto vivente in permanenza nel virtuale: così l’uomo si integra con la macchina per venirne poi, nella sostanza, da questa sostituito. Un cammino che (come denuncia Serge Latouche) conduce ad una artificializzazione del mondo e compromette l’identità stessa dell’umano.

Quelli descritti sono percorsi che prendono avvio dal mancato rispetto dell’equilibrio tra le componenti che costituiscono l’essere umano (quella biologica, quella razionale e quella culturale), un limite da tempo superato con la crescente marginalizzazione della componente biologica.

Bisogna aggiungere che la volontà di superare ogni barriera non riguarda il solo cammino del genere umano collettivamente inteso (come, ad esempio, secondo la concezione marxista). Il pensiero attualmente dominante rivendica l’illimitata possibilità dei singoli individui di scegliere il proprio personale modo di stare al mondo: identità sessuale, etnia, nazionalità sono ritenute cose superate. Bisogna essere aperti ad ogni metamorfosi in conformità ai propri desideri. Un atteggiamento che mette in crisi anche la dimensione sociale alla base di ogni comunità e che distrugge il pluralismo culturale che fa ricco il mondo. In materia, rammento che le varie culture presenti sul nostro pianeta (di cui la lingua parlata è un aspetto centrale) appartengono a una dimensione collettiva e non individuale. L’indebolimento o la cancellazione delle identità collettive conduce all’estinzione delle culture.

Nel pensiero oggi dominate, si ragiona come se l’individuo fosse una monade priva di un’origine, e non fosse invece collocato in un tempo e in un luogo. Invece noi siamo nati in un tempo storico, in un contesto familiare, in uno sociale e nazionale, siamo parte di una comunità linguistica e culturale. Siamo esseri finiti perché la vita ha un termine ineluttabile, siamo vulnerabili e abbiamo bisogno degli altri, ma nel contempo dobbiamo prendercene cura. Abbiamo responsabilità nei confronti di coloro che c’erano prima di noi dai quali veniamo e nei confronti del patrimonio che ci hanno lasciato; dobbiamo occuparci di chi c’è ora, e di chi verrà dopo di noi, perché la storia non comincia e finisce con noi. Siamo sempre in relazione con le persone con cui conduciamo la nostra esistenza e alle quali siamo vicini, relazioni che nascono da sentimenti condivisi, e da realtà tenute insieme dal concetto di dovere reciproco e da quello di destino comune.

Ma tutto ciò è avvertito dai più come una limitazione della libertà individuale, mentre sono proprio quei legami, quei doveri ad essi connessi, e anche quelle costrizioni che caratterizzano la vita reale, a fare dell’individuo un soggetto capace di orientarsi nel mondo e di sottrarsi alla massificazione.

Così il rifiuto dei legami spinge a voler fare tabula rasa di tutto quanto ha contribuito a crearli, a partire dalla memoria del passato, di ciò che ci hanno trasmesso le generazioni che ci hanno preceduto sul territorio che abitiamo.

È la cancel culture che, partita dall’America, ora dilaga in tutto l’Occidente, un ingrediente non secondario del “Great Reset” con cui si intende creare un mondo nuovo e un uomo nuovo. A tal fine, bisogna cancellare anche il ricordo di tutto quanto non è riconducibile al nuovo che si intende edificare. È un obiettivo previsto anche nelle distopie immaginate da Aldous Huxley e da George Orwell.

Dietro tutto ciò, non c’è un disegno messo in atto da una associazione di potenti (una sorta di “Spectre”) formata da personaggi tipo Georges Soros e Bill Gates (come ironizza Mattia Feltri su “La Stampa” del 22 dicembre scorso, rifacendosi ad un libro di Tommaso Braccini Miti Vaganti). È il frutto di quella linea di pensiero da anni dominante nell’intero Occidente a sostegno della quale (come ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della sera” del 13 gennaio 2021) sono impegnati intellettuali accreditati, scrittori e giornalisti di fama, star del cinema e della televisione, leader sociali e organizzazioni internazionali, tutti schierati dalla parte del cambiamento avvenuto nelle società occidentali ormai dominate dalla terziarizzazione e dalla finanza globalizzata, e non più dall’etica del lavoro produttivo. Si tratta, come ho già avuto modo di dire in altra occasione, di quel pensiero unico che certifica l’affermazione planetaria del turbocapitalismo grazie alla sua capacità di esercitare il controllo sulla vita delle persone plasmandole sulla propria necessità di crescita fine a se stessa, imponendo ad esse bisogni, aspettative, stili di vita.

Al centro di tutto, c’è il mercato globale con la sua esigenza di sopprimere tutte le differenze per omogeneizzare la domanda dei consumatori: ne risultano lo sradicamento delle singolarità collettive, la progressiva soppressione delle differenze culturali, la riduzione delle religioni a fatto privato in attesa di una loro estinzione. E in ultimo viene ad essere coinvolta anche la natura umana, come con l’introduzione del concetto di identità di genere e con il transumanesimo.

Giuseppe Ladetto

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I popolari del Piemonte (CLICCA QUI)

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