(Segue la prima parte pubblicata l’11 novembre 2022 CLICCA QUI)

In realtà la potenza estrema coincide con la violenza assoluta, con  la guerra, con la distruzione da cui il “progresso” tecnologico non  ci ha certo allontanati. Del resto la guerra era stata sempre una componente intrinseca dell’ordine internazionale.  La pace no, la pace non lo era mai  stata, per un lunghissimo periodo. La pace nel senso completo e appropriato del termine, è piuttosto una “anomalia” della storia.  Essa è un ordinamento non naturale, ma artificiale, costruito dalla ragione umana, un potere a prima vista  “strano”, che detta legge e limiti a se stesso e si fonda sulla perfettibilità dell’uomo e sulla sua capacità di autogoverno. Essa si può ritenere una “invenzione” della modernità illuministica, soprattutto di Immanuel Kant, che per primo ha provato a progettarne una costruzione concreta ( Michael Howard L’invenzione della pace 2002, pp. 34-36).

Ovviamente questo vale solo se per PACE non intendiamo la semplice assenza di guerra, come più spesso anche oggi si fa, quando diciamo pace e intendiamo invece  la semplice cessazione di un conflitto armato. Cioè vale  se per PACE non intendiamo la condizione in cui la guerra non è effettivamente combattuta, né è imminente, come nella definizione hobbesiana ( pace negativa), ma intendiamo una dimensione costitutiva che implica un ordinamento sociale e politico che sia accettato come giusto e che sia  realizzato da un accordo che presuppone un consenso liberamente fornito da parti diverse, che rinunciano a qualcosa di proprio in nome di un’idea o un obiettivo comune ( pace positiva).

Se pensiamo cioè a PACE come qualcosa che somiglia- come mi ha spiegato un giovane e brillante pianista e compositore- all’accordo che si realizza nella musica da camera, quando essa funziona davvero. Non a caso nel XIX secolo, quando si faceva strada l’idea illuministica di pace,  in Europa si cercava di realizzare ciò che allora veniva definito “concerto europeo”. Un “concerto” che rimanda ad un accordo che non può mai essere imposto soltanto dall’alto, ma che si realizza solo se esso risponde ad esigenze nate dal basso ed alla volontà di ciascuno di rinunciare a qualcosa di proprio per realizzare un obiettivo comune.

La differenza tra quei due tipi di “pace” è in effetti abissale, come ci mostra la storia. Abbiamo avuto paci che erano semplici tregue incerte e inaffidabili tra due guerre, come i trattati di Parigi del 1919/20. Ed abbiamo avuto paci come quella realizzata dal Congresso di Vienna: gli uomini che organizzarono il Congresso di Vienna nel 1814/15- certo conservatori e non dei più illuminati-  chiamarono comunque  a partecipare sin dall’inizio il rappresentante della nazione sconfitta, della Francia, che poté portare il proprio punto di vista. Non pensarono mai a costruire la pace contro la nazione che aveva devastato con la guerra per un quindicennio gran parte dell’ Europa. Ed in effetti le loro scelte portarono in Europa alla cd. “pace dei cento anni”( per la verità con  qualche piccolo conflitto localizzato). Ed in modo analogo si sono orientati i grandi statisti e politici dopo il 1945 in Europa, cercando di costruire accordi basati sul consenso e paci fatte per durare.

Ma tutti questi uomini hanno considerato la pace come una cultura da costruire, non come una condizione da fissare in un trattato.  E se la PACE in senso positivo è una cultura, non un comportamento o una condizione, possiamo concludere che ciò che più ostacola la pace è oggi un potere inafferrabile ed oscuro, che si è oggettivizzato e reso indipendente dagli uomini, imponendosi ad essi.  In altri termini ciò che ostacola la pace è  una “cultura che si fonda su un potere, su  una forza oggettivata ed alienante, che l’uomo non riesce più a dominare.

“ Questo potere ( umano) si è in gran parte oggettivizzato: in conoscenze e procedimenti scientifici , i quali suscitano sempre nuovi problemi; in strutture politiche che sono in movimento verso il futuro; in schemi tecnici che incalzano per la loro propria dinamica; e infine e anzitutto nella logica propria degli atteggiamenti spirituali, intellettuali dell’uomo stesso. …Le opere dell’uomo ed i loro effetti sono saliti sopra di lui e si sono resi indipendenti. Hanno assunto un carattere extra-umano , cosmico, per non dire demoniaco, che non può essere guidato umanamente” ( Romano Guardini, Il potere, p. 193).

Le opere umane stanno assumendo un carattere extra-umano e producono un mondo che sfugge al controllo dell’uomo! Questo è esattamente ciò che oggi chiamiamo ANTROPOCENE un’epoca in cui dovremmo essere destinati a rimanere  prigionieri della tecnica e a perdere la capacità di agire come soggetti storici , un’epoca in cui  il nostro futuro, individuale collettivo, ci sfugge di mano proprio a dispetto della cifra “umana”che la nuova era si assegna, ma che è piuttosto post-umanità, più che umanità. Del resto il termine stesso di ANTROPOCENE sotto il velo legittimante della scienza nasconde un rovesciamento antropologico che è implicito nell’origine teologica del termine stesso

Anthropos kainòs non è espressione geologica o fisica ma è presuntuosamente o forse inconsciamente, espressione di origine teologica e neotestamentaria, niente di meno che l ‘ “uomo nuovo” l’uomo radicalmente rinnovatosi in Cristo secondo la  Lettera paolina, Efesini, 2,15.

Anche i regimi comunisti parlavano all’inizio di “uomo nuovo” e talvolta utilizzavano pure  testi ecclesiastici  in via surrettizia per farlo. Ma cosa è oggi questo “uomo nuovo”? Cosa è questo “mondo nuovo”?  E’ semplicemente qualcosa per cui la storia non potrà più essere libera creazione di uno spirito vivente.  Il nuovo regno della libertà si configura come un regno della potenza assoluta, del potere tecnologico, di una libertà che è volontà di potenza, cioè potere irresponsabile, anche se legittimato ( dalla tecno-scienza). Si nega però in questo modo il senso profondo e originario della libertà  umana, che è prima di tutto libertà morale, libertà di discernere il bene dal male ed è la libertà che si esercita su se stessi oltre che sugli altri, ed è la libertà che i traduce in controllo e guida di ogni potere. Essa non è più quella libertà che consiste nel dominio di sé secondo ciò che dice Virgilio a Dante, al culmine del percorso che lo ha portato a riconquistare la libertà morale:

“Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio;

e fallo fora non fare a suo senno:

perch’io te sovra te corono e mitrio” ( Purgatorio XXVII, 138-142)

Da questa libertà era nato il potere responsabile e subordinato alla legge morale,che, nei momenti più alti della vicenda umana si era fatto addirittura obbedienza e servizio, umanizzazione del mondo. Pensiamo al “potere”  di chi ha resistito ai “poteri” assoluti e totalitari nel corso del secondo conflitto mondiale e della Resistenza ed alla sua forza straordinaria nel generare la libertà. Ma anche al “potere” di chi ha gestito la cosa pubblica in spirito di obbedienza rispetto ai principi costituzionali, a scapito di ogni altro vantaggio.

Ma se non è questo il potere, esso è solo pura irresponsabile volontà di potenza, per quanto tecnicamente equipaggiata e giustificata dalla scienza. Senza questo concetto di  libertà responsabile non è possibile una PACE in senso positivo, non è possibile il discorso sulla pace, non è possibile il confronto tra le posizioni diverse. Non è semplicemente possibile il dialogo e dove non c’è dialogo c’è per forza la violenza. E la guerra ridiviene un elemento necessario dell’ordine naturale, non una sua violazione.

Questa PACE è ciò che in Europa era stato progettato in concreto dall’Illuminismo. Ma la conquista illuministica della pace era solo  il punto più alto, quasi il pinnacolo visibile di una costruzione culturale enorme ed invisibile,  realizzata nei secoli, anzi nei millenni, come ci spiega Michael Howard

“ Sulla relazione tra pace e guerra ragioniamo in termini che vanno rintracciati nell’insegnamento  delle chiese cristiane così come si è svolto da duemila anni a questa parte e nella tradizione giuridica occidentale degli ultimi quattrocento anni. Nessun altro contributo, vuoi classico o europeo, è stato così profondamente interiorizzato che pochissimi di noi- temo- sono consapevoli della sua stessa esistenza”(M. Howard, L’invenzione della pace, cit., p. 17)

Secondo lo studioso americano alle radici della “invenzione della  pace” c’è questa enorme costruzione culturale- la cultura cristiana-  una radice essenziale di cui però abbiamo perso consapevolezza. Certamente agli inizi questa cultura, vivendo in simbiosi con un potere politico preesistente,  aveva legittimato un ordine sociale e politico in cui la guerra era parte dell’ordine politico ed il guerriero un servitore di Dio, addirittura un promotore di quest’ordine ( Dio lo vuole!). Ma questo era in contrasto con l’idea di un ordine divino in cui assolutamente centrale era il concetto di pace, come del resto spesso ricordavano i critici che all’’interno del clero consideravano apertamente la guerra come una violazione dell’ordine divino.

E’ questa la grande cultura che, nel XX secolo, a partire dalla “grande guerra” ha prodotto uno straordinario numero di documenti sulla organizzazione della pace come obiettivo politico della politica internazionale ed ha alimentato uno sforzo collettivo in questa direzione senza precedenti nella storia.

L’ “antropocene” più che un’epoca già in  essere, sembra allora configurarsi come una teoria che contiene in nuce un radicale esperimento antropologico- come quelli terribili del XX secolo-  magari stavolta legittimato e benedetto dalla “scienza”- l’esperimento della rimozione, ovviamente in nome del “progresso”, delle fondamenta cristiane ed umanizzanti del potere, che hanno trovato espressione in questa cultura della pace.

La nuova era potrebbe essere un’epoca in cui, accanto alle varie crisi, la guerra  ridiventi ancora un elemento permanente della struttura sociale, come lo era stata per secoli nel periodo feudale. La guerra potrebbe essere ancora percepita cioè come un elemento spiacevole, ma necessario nell’ordine naturale delle cose. Oppure la guerra, l’ uso “razionale” della violenza, potrebbe ridivenire la modalità essenziale per risolvere le controversie internazionali. Sarebbe il trionfo del cattivo uso del potere, “giustificato” dalla emergenza e dal moltiplicarsi delle crisi. Un pericolo anche questo denunciato a suo tempo. “Si ha continuamente l’impressione che il mezzo con cui viene dominata la fiumana crescente dei problemi , sia in definitiva la violenza. E ciò significa che il cattivo uso del potere diviene la regola. Il problema centrale attorno a cui dovrà aggirarsi il lavoro della cultura futura e dalla cui soluzione dipenderà non solo il benessere o la miseria , ma la vita o la morte, è la potenza. Non il suo aumento, che questo avviene da sé , ma la via di domarla e di farne un retto uso. Le forze selvagge nella loro forma primitiva sono vinte : la natura immediata è resa obbediente. Ma quelle forze riappaiono nel seno della cultura ed il loro elemento è quello che già vinto: la primitività selvaggia, la potenza stessa. In questo secondo caos selvaggio si sono riaperti tutti gli abissi delle origini […] Tutti i mostri della solitudine, tutti i terrori delle tenebre sonno ricomparsi. L’uomo sta nuovamente di fronte al caos”  ( Romano Guardini, La fine del’epoca moderna, p. 89)

Forse nel caos distruttivo che percepiamo possiamo misurare la dimensione più profonda del vivere senza una  cultura umana del potere e, quindi, senza una cultura della pace.  Da qui però possiamo trarre una conclusione tutt’altro che  pessimistica. Se il  nostro compito è difficile, arduo, non si può negare che almeno sia chiaro e distinto.

Si tratta oggi- per far fronte all’”uomo non umano” ed  alla “natura non naturale” e forse anche alla guerra come soluzione (finale?)-  di eticizzare  (e quindi di limitare) il potere, tanto quello dei governanti quanto quello di cui è titolare ogni singolo essere umano. Si tratta di combattere ogni cattivo uso del potere.  Si tratta di far della responsabilità personale una cifra del potere diffuso, per poter fare di esso davvero obbedienza e servizio, come è stato nei momenti più alti della vicenda europea. Per uscire dalla “società dell’astrazione” che lavora sui numeri astratti con gli algoritmi, i computer e i droni e realizzare invece quella “società della cura” che lavora sulle persone concrete col discernimento della ragione.

Da questo sforzo di ricostruzione etica  è rinata  l’ Europa come comunità che, per un lungo periodo, ha strappato le persone alla barbarie, alle persecuzioni dei poteri tirannici, all’idolatria della guerra ed al timore della catastrofe globale, cui oggi sembra rassegnarsi invece una “cultura” pseudo-realistica pseudo-scientifica e tecnocratica che può alimentarsi solo di un vuoto umanistico, morale e culturale, una “cultura” che vorrebbe dare addirittura il nome ad un’ epoca nuova, ad una catastrofica ANTROPOCENE che magari normalizzi la cultura della guerra e dei rischi permanenti. Un motivo in più, se ve ne fosse bisogno,  per sottoporre al pubblico confronto le ragioni di una forza politica, ma soprattutto culturale, di ispirazione cristiana.

Umberto Baldocchi

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