Quanto più urla, inveisce e strepita, tanto più crescono i dubbi circa la effettiva capacità di leadership di Giorgia Meloni.

Un vero leader nulla ha a che vedere con pose stentoree che, tutt’al più, si addicono ad un capo-popolo, a chi intenda guidare una fazione contro l’altra, dentro un disegno volutamente, a tutti i costi, divisivo. Un vero leader – cioè chi sappia interpretare quel certo momento storico e cerchi di guidarne gli eventi orientandoli verso un orizzonte di crescente maturità civile e di progresso sociale – perfino dall’opposizione dovrebbe cercare di unire piuttosto che dividere.

Dividere, al contrario, sembra essere il paradigma che, pregiudizialmente, Giorgia Meloni, da un anno e mezzo a Palazzo Chigi, ha deciso di adottare come cifra caratteristica del suo governo. Evidentemente non ne conosce un altro e, quindi, resta prigioniera di una ritualità barricadiera del tutto sopra le righe e stridente con la responsabilità di guidare il Paese. Quella “grazia di stato” che, fortunatamente, sembra assisterla quando è lontana da casa, sul piano delle relazioni internazionali, è evidentemente un abito posticcio, sovrapposto per l’ occasione – né in quei contesti potrebbe essere diversamente – ad un “umore” di tutt’altro genere.

Ed è qui che la “forza” che Giorgia Meloni cerca di mostrare ed evoca addirittura attribuendosene il marchio, mostra come il suo sia, al contrario, un atteggiamento intessuto di timori e debolezze che cerca di esorcizzare come può.
Fanno così i bambini che vengono lasciati soli in una camera buia: urlano perché sia almeno la loro voce a colmare quel vuoto incombente che li assedia.

Se Giorgia Meloni fosse e si sentisse davvero impavida come ha proclamato in questi giorni, non avrebbe bisogno di gridarlo ai quattro venti, quasi dovesse convincere, anzitutto, sé stessa.

Domenico Galbiati

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