Mi proponevo di scrivere alcune considerazioni sul salario minimo quando è stato pubblicato qui, il 28 settembre, un intervento di Daniele Ciravegna ( CLICCA QUI ). Il contributo di Ciravegna, magistrale, tratta, ed esaurisce, la sostanza economica della questione, in termini che condivido.
Rimane, tuttavia, da considerare l’impatto della questione sostanziale sulla politica, la quale, parafrasando irriverentemente Blaise Pascal, ha le sue ragioni che la ragione non conosce (ma non è nuovo che vi siano razionalità diverse). Inoltre la danza delle tattiche (dei partiti e delle parti sociali) incorre non di rado nell’eterogenesi dei fini.
Tuttavia salario minimo non denomina il problema che abbiamo di fronte. Indica una possibile soluzione, che al momento non incontra il consenso sufficiente per procedere. Ma la mancanza di consenso a una proposta di soluzione non consente di distogliere lo sguardo dal problema.
Il fatto che a Bruxelles sia in corso l’iter di una direttiva (in attuazione del principio 6 del Pilastro europeo dei diritti sociali) può indurre alcuni a sperare e altri a temere che il problema lo risolva Bruxelles. Tuttavia, appena si è riparlato di salario minimo le reazioni sono state rapide e da copione. La sinistra ha detto si e qualcuno ha anche ricordato che occorre anche la legge sulla rappresentanza. La destra ha detto no, e qualcuno ha anche aggiunto che va salvaguardata la contrattazione.
Dire sì o no per una compulsione di schieramento non fa buona politica. È bene verificare l’esistenza del problema, individuarne i termini, prenderne le misure e solo dopo, tra coloro che ritengono che il problema vada risolto, discutere le soluzioni prospettate, e se occorre cercarne altre. Poiché è tra gli autori del rilancio del dibattito sul salario minimo partiamo dalle affermazioni del presidente dell’INPS Tridico, il quale, intervenendo a Futura, la recente manifestazione di CGIL a Bologna, ha affermato che: “Oggi sono oltre 2 milioni i lavoratori che lavorano a 6 euro all’ora lordi. Ci sono “riders” che corrono e fanno incidenti anche mortali che guadagnano 4 euro all’ora”.
A questi elementi noti all’INPS occorre aggiungere la parte sommersa, quella dell’economia non osservata, dove non c’è lordo e netto ma il puro e semplice sfruttamento del lavoro pagato in nero 2 o 3 euro. È un mondo che intravediamo da episodi di cronaca nera o da elementi occasionali difficili da verificare. Sappiamo inoltre che un certo limite del RdC, il fenomeno di coloro che rifiutano un lavoro, trova almeno una concausa nel fatto che girano retribuzioni rispetto alle quali persino un sussidio di povertà risulta competitivo. Sappiamo anche, dati OXFAM, che in Italia “il 30% dei giovani occupati guadagna meno di 800 euro al mese, e il 13% degli under 29 in Italia versa in condizioni di povertà lavorativa” (in un report sulle diseguaglianze al World Economic Forum di Davos).
Tridico aggiunge che la situazione da lui delineata “… non è tollerabile. Non è tollerabile in una economia avanzata”.
Ma noi possiamo aggiungere che, come ben noto, il primo rigo della nostra Costituzione afferma che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. E considerata la dignità del lavoro anche se l’articolo 36 non ci fosse non si potrebbe arrivare a conclusioni diverse. Ma l’art. 36, ben noto almeno agli addetti ai lavori, c’è e (al primo comma) afferma: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Per quanti tra i lettori di questo sito hanno a cuore la Dottrina Sociale della Chiesa non servirebbe altro. Tuttavia aggiungo una sola citazione dal relativo Compendio (302. “La remunerazione è lo strumento più importante per realizzare la giustizia nei rapporti di lavoro. Il ‘giusto salario è il frutto legittimo del lavoro, commette grave ingiustizia chi lo rifiuta o non lo da a tempo debito e in equa proporzione al lavoro svolto. Il salario è lo strumento che permette al lavoratore di accedere ai beni della terra: ‘il lavoro va ricompensato in misura tale da garantire all’uomo la possibilità di disporre dignitosamente la vita materiale, sociale, culturale e spirituale sua e dei suoi, in relazione ai compiti e al rendimento di ognuno, alle condizioni dell’azienda e al bene comune’. Il semplice accordo tra lavoratore e datore di lavoro circa l’entità della remunerazione non basta per qualificare ‘giusta’ la remunerazione concordata, perché essa ‘non deve essere inferiore al sostentamento’ del lavoratore: la giustizia naturale è anteriore e superiore alla libertà del contratto)”.
Sembra dunque che la Costituzione non ammetta lo sfruttamento dei lavoratori e i “working poors” e che alle situazioni richiamate sopra si deve porre riparo. Sul come, non sul se, la politica può dividersi. Ora una digressione. Quando pochi anni fa fu introdotto il REI, anche principalmente per impulso dell’Alleanza contro la Povertà, noi eravamo rimasti tra gli ultimi due o tre in Europa ancora privi di una misura di contrasto alla povertà. Ora siamo nel gruppo minoritario di paesi dell’UE, un quarto circa, che non hanno provveduto a un minimo salariale, secondo entità diverse (perché si va dai 332 dei bulgari ai 2202 dei lussemburghesi) e con modalità diverse. Dovremmo chiederci se il ritardo nelle scelte di Giustizia sociale sia del popolo italiano o della sua classe politica.
Nei giorni scorsi il lussemburghese Nicolas Schmit, Commissario europeo per il lavoro e i diritti sociali, ha fatto alcune affermazioni largamente riprese anche dalla stampa italiana. Oltre ad aver auspicato un reddito minimo per i giovani ha fatto alcune affermazioni utili sul nostro tema. Sul salario minimo ha infatti dichiarato: “È uno degli strumenti giusti. Ci sono Paesi, come l’Italia, che non lo prevedono, perché hanno un sistema di contrattazione collettiva molto forte. La Commissione non lo imporrà. La differenza è proprio l’esistenza di una contrattazione collettiva efficace. Se non c’è, allora è utile. Ma, certo, la contrattazione collettiva è la soluzione migliore”.
Tralascio qui di approfondire lo stato dell’iter della proposta di direttiva e i termini del dibattito. Sto alle posizioni politiche, del resto la attuale vicenda europea del salario minimo si era proprio aperta con le dichiarazioni programmatiche, a inizio mandato, di Ursula Von der Leyen. Ora le dichiarazioni concilianti e possibiliste del Commissario aprono una prospettiva di lavoro, che non può consistere nell’avallo dello status quo. Lo status quo non impedisce distorsioni e iniquità e deviazione dai valori costituzionali. Ora, se siamo d’accordo che il problema c’è possiamo incamminarci alla ricerca della soluzione. Se c’è il problema non si può sostenere l’adeguatezza dei sistemi contrattuali e degli assetti normativi attuali. Se fossero adeguati non ci sarebbe il problema. Se non piace il salario minimo e ci sono altre soluzioni che assicurano gli stessi effetti, vanno esaminate e forse accolte.
Dal dire che i minimi sono stabiliti dai contratti, consegue che vanno messi fuori corso tutti i contratti che avessero minimi indecenti (dumping e così via) e vanno resi validi erga omnes i contratti stipulati tra le parti sociali effettivamente più rappresentative. Dunque una legge sulla rappresentanza che stabilisca a quali condizioni un’associazione può stipulare contratti e a quali condizioni quei contratti possono essere validi erga omnes rimane l’unica strada (almeno parzialmente) alternativa al salario minimo legale.
Ora, poiché la situazione attuale non è sostenibile, se si ritiene che il salario minimo legale potrebbe sortire effetti avversi, destabilizzando il sistema contrattuale, bisogna invece che il sistema contrattuale sia esteso, potenziato, perfezionato. C’è anche un articolo della Costituzione in merito. Forse prima o poi occorrerà attuarlo o chiedersi come andrebbe modificato. Non basta richiamare gli accordi sottoscritti tra i sindacati più rappresentativi e la confederazione imprenditoriale più rappresentativa. Anche se venissero resi pienamente esecutivi non impegnerebbero nessun altro in assenza di una legge sulla rappresentanza.
Dunque occorre decidere quali requisiti di rappresentatività abilitino una associazione a stipulare e quali ben ulteriori diano luogo a CCNL erga omnes. A questo punto eventuali situazioni, che permangano contrattualmente scoperte, potrebbero essere affrontate diversamente. Ci sono in giro per l’Europa, per esempio in Germania, soluzioni normative che possono incoraggiare una esplorazione di strade appropriate.
Ovviamente l’approfondimento del dibattito esige precisione. Se si dice 6 € o 9 € occorre sapere se si parla di netto o lordo e se la cifra incorpora frazioni di tredicesima e altri istituti. E poi occorre considerare la diversa natura dei datori di lavoro, quando si tratti di persone o famiglie (per esempio in relazione ai salari del lavoro di cura, badanti, etc).
E mentre si lavora alle scelte fondamentali occorrerebbe anche progettare accuratamente i sistemi di monitoraggio, controllo e sanzione che dovrebbero essere ben disegnati dall’inizio. Prima o poi dovremo smettere di dire che fatta la legge, trovato l’inganno.
Vincenzo Mannino

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