La recente kermesse di Xi Jinping a Mosca è servita, se non altro, a certificare – ma già lo si intuiva – chi ambisca a governare o, forse meglio, già governa, la filiera delle “autocrazie” ed ha in animo di impegnarle – sia pure con le movenze morbide e suadenti tipiche della millenaria diplomazia cinese – in una strategia sistemica di contrapposizione o comunque di duro confronto con i Paesi che godono di ordinamenti democratici che Cina e regimi similari neppure conoscono.

E’ servita anche a mettere al suo posto lo stesso Putin ed a mostrare chi comandi davvero. La sua “operazione speciale” contro la libera Ucraina appare in una nuova luce. Per ora il padrone di Pechino gli lascia il guinzaglio lungo perché – altro che pace – garantisca quello “stato di belligeranza permanente”, che rappresenta la condizione necessaria per cercare di tenere sotto schiaffo l’Europa e l’intero mondo libero, insinuare crepe o smagliature nel rapporto euro-atlantico, ricomporre gli assetti di potere o almeno ridisegnare le aree di influenza sull’ intero scacchiere internazionale.

Putin ha le sue nostalgie da grande potenza e sa sbagliare da solo, senza un sia pur possibile “endorsement” cinese, ma l’avvolgente strategia del “dragone” cerca di cogliere al meglio le opportunità che offre il corso degli eventi. Le ambizioni di Pechino sono planetarie e sembrano avere la pretesa di evocare, addirittura, una nuova era. Ma non devono sorprendere, per almeno due motivi.

Anzitutto, vengono da lontano e rispondono alla cognizione di sé e della propria identità culturale e storica, alla rivendicazione di quella dignità sovraordinata al resto del mondo, olimpicamente sussiegosa ed altera, che l’ Impero Celeste coltiva da tempo immemorabile e permea l’ un regime o l’altro, così come da secoli è stata trasmessa indenne dall’una all’altra dinastia. La Cina coltiva la sua diversità ed attende che la storia volga dalla sua parte. Ma, soprattutto – e qui probabilmente sta il suo punto debole – il leader di Pechino non può fare a meno di anticipare la mossa, prima che l’Occidente, in particolare nella competizione tecnologica, lo spinga all’angolo. Su questo piano è costretto a giocare la partita – e lo sta facendo – senza dilazioni temporali.

Senonché il volano o almeno una delle condizioni necessarie a spingere lo sviluppo e sostenere la competizione con il mondo occidentale, è data dal regime autoritario che esige disciplina, ordine, obbedienza e rigore, senza concedere nulla a libertà e democrazia. Valori, peraltro, che inevitabilmente si risvegliano prima o poi nella coscienza dei popoli ed, anzi, lo fanno piuttosto prima che poi quando lo sviluppo economico sollecita una domanda di beni immateriali, come sempre succede una volta superata la soglia della sopravvivenza o di una limitata disponibilità di beni di consumo.

Insomma, la democrazia, per i regimi autocratici, in particolare orientali, non solo è al di fuori della loro cultura e della loro tradizione, ma addirittura è veleno. Non a caso, ricordiamo Piazza Tienanmen. La Cina rischia, cioè, di segare il ramo su cui è seduta, di cadere in un circolo vizioso tale per cui è esattamente lo sviluppo a scardinare le sue stesse basi. Per questo è importante per la Cina giungere ad una competizione aperta che allinei le autocrazie e sia diretta a stabilire se e come la complessità possa essere meglio governata da regimi illiberali o piuttosto da chi crede nel valore irrinunciabile della libertà.

Domenico Galbiati

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