Arrivati in fondo al tunnel, ma non ancora usciti, dell’emergenza sanitaria, si impone la necessità di affrontare una gravissima emergenza sociale ed economica. Lo Stato, nelle sue diverse articolazioni istituzionali, centrali e locali, è chiamato a uno sforzo immane. Ma lo sforzo maggiore è quello di non tornare alla “normalità” precedente, neppure che le assomigli: è necessario gettare le basi di una nuova “normalità”. E questa si persegue solo attraverso una riorganizzazione dello Stato perché lo Stato non è qualcosa che sta a Roma. Troppo spesso viene confuso con il governo centrale: lo Stato è l’organizzazione istituzionale della comunità dal comune al parlamento, passando per le regioni e arrivando al Quirinale interprete e simbolo dell’unità nazionale. Eppure nei mesi bui della pandemia e in questa prima fase post lockdowm, le maggiori tensioni si sono registrate nel rapporto tra governo e regioni, con scarsa collaborazione e tanta contrapposizione. Genericamente si parla di rapporti Stato-Regioni ma è una deformazione del quadro come se le Regioni non fossero nello Stato, o come se lo Stato fosse qualcosa al di fuori delle Regioni.
Le parole hanno un significato profondo e non sono mai casuali perché sottendono un preciso valore storico, culturale ed effettuale dei soggetti interessati e delle loro relazioni. La competizione tra governo e regioni non è scoppiata nelle scorse settimane, è una degenerazione che ha avanti da anni, in particolare da quando è stata introdotta l’elezione diretta del presidente della Regione, subito ribattezzato governatore. Appellativo adottato con una certa superficialità e con quella spavalderia tutta italiana che altro non è che sudditanza psicologico/culturale per tutto quello che arriva da oltre Atlantico. Ma le parole, si diceva poco fa, hanno un significato profondo e il fascino Usa ha colpito i presidenti italiani di Regione che ben presto si sono calati nella parte di governatori. E con l’intento, non tanto nascosto, di “fare gli americani”. Ma non può sfuggire il fatto che i governatori Usa sono a capo di uno Stato, idea che affascina non pochi governatori italiani, per la verità non soltanto leghisti. Questi ultimi, magari, sbraitano più degli altri. Infatti il regionalismo dell’ultimo ventennio ha sempre più preso la forma di feudi di egoismi allontanandosi pericolosamente dalla solidarietà nazionale.
Non voglio far dire a Sturzo quello che non può più dire o smentire, ma questo regionalismo non ha nulla a che fare con quello che lui aveva sognato e per il quale si era tanto battuto. Il braccio di ferro Governo-Regioni sulle aperture nella cosiddetta Fase-2 è stata la massima espressione di una diversa visione del Paese: Governo e Regioni erano divisi da un Rubicone. La cautela di Roma era più che legittima, le esigenze delle Regioni erano più che legittime. Alla fine queste ultime hanno strappato qualche concessione in più rispetto a quello che il governo voleva concedere. Quello che sta succedendo in questi giorni di uscite indiscriminate alimenta non pochi motivi di preoccupazione. I governatori sono improvvisamente diventati più cauti, qualcuno anche timoroso. Tuttavia, il nodo della questione sta nel fatto che le Regioni sono riuscite a imporsi sul governo trasmettendo nell’opinione pubblica l’idea che volevano liberare i “propri” cittadini e le “proprie” imprese da un governo che li teneva schiavi in casa. Una deriva riassunta da quanto dichiarato da un governatore: «Ora serve l’autonomia, unico modo per uscire dal Medioevo è ridurre al minimo le catene decisionali».
E’ chiarissima la pericolosità di tale affermazione, un’autentica picconata sull’unità nazionale che mai Sturzo avrebbe messo in discussione: qui l’autonomia altro non è che l’ingresso in quel tunnel in fondo al quale c’è l’indipendenza. Allora non può sorprendere che lo stesso governatore arrivi a dire, parlando della gestione della pandemia, che «le Regioni sono fondamentali: ci sono stati dei pasticci e li hanno fatti a Roma». Considerato che la drammatica emergenza del Coronavirus è ancora in atto, non si può parlare di difetto di memoria, ma è evidente che anche Pinocchio saprebbe raccontarla meglio. Eppure quella che a tutti è parsa la vittoria delle Regioni, sul caso delle aperture, al di là di eventuali conseguenze negative sul contagio, di fatto quella vittoria è frutto di un’estrema debolezza delle Regioni, in particolare dei governatori. Infatti al di là di atteggiamenti spavaldi nel voler fare i fenomeni, i governatori sono in balia dell’opinione pubblica (e non mi riferisco soltanto a quelli prossimi alle elezioni).
Non è un caso, infatti, che finora non ci siano stati governatori che hanno assunto un rilievo nazionale, con le due timide eccezioni di Bersani e Zingaretti. La loro debolezza sta nell’elezione diretta che di fatto li lega agli umori oscillanti dell’opinione pubblica: i governatori si sentono padroni, nei fatti sono schiavi nell’inseguire un consenso sempre instabile e continuamente sfuggente. I social sono il termometro di questa mutevolezza. Quanto sia fluttuante l’opinione pubblica è magistralmente descritto dal Manzoni nei “Promessi sposi”, senza dimenticare che l’opinione pubblica, nella sua indefinitezza e indeterminazione, ha condannato a morte prima Socrate poi Gesù Cristo. Per dare potere reale ai governatori è necessario passare a un’elezione indiretta: presidente e consiglio regionale eletti da sindaci e consiglieri comunali, ovviamente con voto ponderato. In questo modo il governatore sa di doversi rapportare prima di tutto con i sindaci, l’istituzione a diretto contatto con la cittadinanza. Non si esagera nel dire che attualmente il rapporto tra governatore e sindaci è lo stesso tra commensale e camerieri. Senza dimenticare che un’elezione indiretta comporta un notevole risparmio sia per lo Stato sia per le faraoniche campagne elettorali. E sarebbe un vero taglio ai costi della politica senza danneggiare la democrazia.
Luigi Ingegneri