Centocinquanta anni non sono molti nella vita di una Nazione la cui civiltà, e la ricchezza che questa civiltà ha sempre saputo creare, ha ininterrottamente attirato invasioni barbariche e spedizioni di conquista o di rapina da parte di altri popoli. E che a queste invasioni ha dovuto far fronte più con la forza della capacità di assimilazione che le derivava dalla sua cultura latina e cristiana, che con la forza delle armi. E ciò a partire dal momento in cui l’antico Impero aveva quasi rinunciato a combattere, ed aveva trasferito la propria capitale da Roma alla greca e orientaleggiante Costantinopoli, giustamente considerata più sicura perché per raggiungerla i Goti, gli Unni e i Germani avrebbero dovuto attraversare le aride, gelide e selvagge montagne balcaniche, dov’era pressoché impossibile rifornirsi di cibo, a differenza di quanto era invece offerto alle orde barbariche dalle fertili vallate dalla Penisola, su cui si stendeva il sistema stradale romano.
Centocinquanta anni sono invece moltissimi nella vita di uno Stato che l’abilità politico- diplomatica di un ricco proprietario terriero nella valle del Po, l’afflato cattolico-giansenistico di un grande leader morale ed ideale, e le entusiasmanti capacità militari e di trascinamento di un romantico combattente per la libertà, erano quasi miracolosamente riusciti a creare solo nove anni prima della data di cui oggi ricorre appunto il centocinquantesimo anniversario: il 20 Settembre 1970, la presa di Porta Pia, ed il ricongiungimento di Roma all’Italia, come sua naturale ed insostituibile capitale.
Ma centocinquanta sono paradossalmente pochissimi, e al tempo stesso moltissimi, nella millenaria storia della Chiesa Cattolica. Per la quale, oggi, 20 settembre 2020, ricorre infatti l’anniversario dell’entrata nell’era contemporanea, se non a vele completamente spiegate – che verranno solo qualche anno più tardi -, almeno liberata da ogni pesantezza del passato. Non a caso, si narra che il Cardinal Montini, che diverrà poi Paolo VI, avrebbe detto che la presa di Roma da parte degli Italiani fu un’opera della Provvidenza.
Molte cose sono cambiate dopo di allora, e spesso in senso positivo, nei rapporti tra Stato e Chiesa e tra società religiosa e società civile. Tanto che oggi ci appare quasi incredibile, che all’inizio del ‘900, una studentessa potesse rischiare di essere buttata fuori dal liceo per aver fatto osservare che, se lo Stato della Chiesa era veramente quel luogo di arretratezza civile e culturale quale lo descriveva la propaganda post-risorgimentale, non si capiva come al suo interno potesse essere nata e aver fiorito l’università di Bologna, per secoli la più prestigiosa e avanzata d’Europa. Così come appare oggi quasi incredibile che i Cattolici rifiutassero di esercitare il loro diritto di voto, lasciando il paese esposto all’influenza di organizzazioni segrete sotto l’influenza di forze straniere.
Questo duplice solenne anniversario cade purtroppo in un momento assai buio della realtà internazionale, in un momento in cui la pandemia funesta la doppia gioia che la ricorrenza ci ispira come Cattolici e come Italiani. Ma non può cancellarla. Essa è, al contrario, per popolo di cui facciamo parte, un doloroso richiamo a quelle caratteristiche che ne hanno garantito la pluri-secolare sopravvivenza. L’umiltà della natura umana nel quadro delle forze della natura, e la consapevolezza della fragilità fisica e dell’inevitabile sofferenza dell’animo sono riapparsi come parti integranti ed ineliminabili della vita di un’umanità che nell’ultimo secolo sembrava orgogliosamente credere di aver acquisito i mezzi per comprendere, dominare e sottomettere la natura. E di poter organizzare la propria vita in modalità quasi de-cristianizzate, nella permanente ricerca del più meschino piacere individuale, troppo spesso indifferente o dimentico degli obblighi collettivi e reciproci. L’ombra che il morbo getta su questa importante ricorrenza non sarà perciò solo un fatto negativo, se da esso sapremo trarre un insegnamento morale.
Uno sforzo di autocoscienza e di introspezione cui siamo visibilmente costretti di fronte al carattere mondiale della tragedia, sulle conseguenze già evidenti nei comportamenti delle vittime della pandemia che stiamo vivendo, sarà indispensabile se davvero vogliamo un “ritorno alla normalità”, cioè un futuro così benevolo come cerchiamo di immaginarcelo.
I cambiamenti etici che sembrano verosimili, in direzioni che potremmo giudicare tanto positivamente quanto negativamente, potrebbero in definitiva essere più importanti delle stesse perdite in termini di vite umane e di danni economici, che tanto oggi ci preoccupano. Ed entrambi i protagonisti di quel breve e quasi solo simbolico scontro militare che ebbe luogo a porta Pia, il 20 settembre 1870, la Chiesa e lo Stato, così come le forze politiche che al ruolo sociale sia dalla Chiesa che dello Stato fanno riferimento per il proprio impegno politico, ne potranno trarre beneficio. Specie se sapranno rispondere all’impegno, cui sono oggi chiamate, per lenire e guarire le ferite psicologiche e spirituali del morbo.
Sotto questo profilo, l’Italia ha già conosciuto questa forma di concorso al rilancio morale e alla rinascita socioeconomica dell’intera società all’indomani della seconda guerra mondiale. Ed è auspicabile che ciò si riproduca nel prossimo futuro. È auspicabile cioè che forze politiche cristianamente e socialmente ispirate concorrano a curare le ferite del difficile prossimo avvenire. E soprattutto che venga risparmiato nostro paese il rischio cui sembra oggi esposta una componente essenziale del mondo occidentale, gli Stati Uniti, quello di sprofondare in una guerra civile a carattere razziale. Oppure il rischio, cui sembrano esposti altri paesi come la Spagna e il Regno Unito, della frammentazione regionale.
Perché non bisogna nascondersi il fatto che, solo 150 anni dopo il compimento del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, questo rischio oggi esiste; che tra le conseguenze della pandemia ci sia anche qualche passo indietro sull’unità nazionale. Anzi, la ricorrenza non solo non esime dal trarre una sorta di almeno approssimativo bilancio di quanto da allora si è riusciti o non si è riuscito a costruire, e dal fare il punto della situazione. Al contrario, impone che lo si faccia.
L’evoluzione negativa dell’istituto regionale – creato proprio nell’anno del centenario, nel 1970 – finisce immediatamente al centro una tale valutazione. Né ciò che promette per il futuro è meno scoraggiante. E il morbo ha fornito l’occasione per comportamenti, spesso illeciti, che hanno accelerato e aggravato i termini in cui si pone oggi il rapporto tra Roma e l’insieme del Paese, con possibili riflessi anche sull’equilibrio tra le funzioni di capitale politica della Repubblica Italiana, e “capitale” mondiale della Cristianità.
È stato infatti sotto gli occhi di tutti come il comportamento di alcuni governatori regionali – e in particolare del triste governatore della regione che, nonostante fosse la più ricca d’Italia, ha dimostrato di aver avuto negli anni passati un’amministrazione che la ha preparata peggio di ogni altra ad una evenienza come quella che poi si è verificata – sia stato soprattutto di usare la pandemia come un’occasione di maggior potere, per un tentativo per allargare le proprie competenze e i propri ruoli a scapito di quelli dello stato nazionale.
L’elevatissimo numero di morti – non inevitabili se soltanto ci fosse stato un livello appena decente di preparazione – gli è valso sui muri di Milano la qualifica di “assassino”: una qualifica estrema difficile da accettare. Ma è certo che il malgoverno di cui ha dato prova di essere capace la Regione Lombardia, in contemporanea con l’assalto ai poteri dello Stato in atto attraverso il tentativo di realizzare le cosiddette “autonomie allargate”, lasciano il dubbio di avere come scopo non solo la possibilità di maneggiare una maggiore quantità di denaro pubblico, ma anche di essere utile a forze che a livello europeo giocano a favore di una trasformazione de facto dell’assetto istituzionale, e soprattutto di una redistribuzione del potere tra Germania, Stati Uniti e Francia.
E in questo quadro europeo dove giocano potenze occupanti, ambizioni revansciste e illusioni neo-coloniali, nessuno può sfuggire quanto un altro governatore di una regione del Nord ci abbia tenuto a far coincidere la data della riapertura delle attività produttive nella sua regione con quella delle imprese tedesche di cui il Veneto è – attraverso le “catene del valore” – ormai diventato vassallo. Né come il governatore della Liguria sia tornato più volte sulla pretesa esistenza, già oggi, di una “costituzione materiale dell’Italia … un pochino cambiata” rispetto alla sua Costituzione scritta. E sul fatto che egli, da quel Maestro del pensiero politico che è, si sentirebbe “ormai più federalista che autonomista”. Per non parlare della complicità, da quello che un tempo fu l’altro estremo dello schieramento politico, degli attuali amministratori nella regione in cui fiorì l’università di Bologna; amministratori che peraltro dell’Università e del suo ruolo, di ieri e di domani, nulla sanno, né hanno mai pensato di dovervi mettere piede.
Che l’unità del Paese sia sotto minaccia oggi ancora più di quando una manica di pagliacci celebrava un blasfemo battesimo pagano per il Dio Po, è un fatto innegabile. Il morbo che ha segnato questo tragico 2020 ha infatti accelerato alcune tendenze in atto sin da quando, contestualmente ed in contrasto con la riunificazione della Germania, si son viste andare in pezzi la Jugoslavia, la Cecoslovacca e persino l’Unione Sovietica. Ma il processo continua, com’è visibile in particolare nella probabilità oggi assai alta di una frammentazione della Gran Bretagna, con una separazione della Scozia, che avrebbe un ruolo storicamente assai significativo e ancor più fortemente un ruolo emblematico.
Nella penisola italiana i rischi sono meno netti. Ma la decadenza evidente di Roma, nello squallore personale e politico della sua attuale amministratrice, si coniuga con il servilismo di un Presidente del Consiglio raccattato non si sa dove e che, assai sensibile agli interessi delle regioni più ricche, si prodiga per accrescere il ruolo internazionale di Torino e di Milano, abbandonando Roma al suo destino. Non a caso, voci autorevoli, tra cui quella dell’ex-Ministro della Giustizia, Paola Severino, si sono sollevate, a mettere in discussione il comportamento del casuale occupante di Palazzo Chigi.
Ma il destino di Roma non può essere visto solo nel breve periodo, nello sullo sfondo dell’avvilente teatrino su cui ballano oggi alcuni poveri burattini. Roma, non lo si sottolineerà mai abbastanza, è anche la capitale della cristianità. E se dovesse diminuire nel ruolo civile e politico datole dall’essere la capitale effettiva di un importante paese europeo, anche il rapporto col Vaticano cambierebbe; e cambierebbe nel senso di una accresciuta dipendenza anche economica della città dal ruolo spirituale della Santa sede. L’ammirevole equilibrio gradualmente costruito nei centocinquanta anni che oggi si compiono, e che hanno dato i loro frutti migliori con quel che si saputo realizzare dopo la seconda guerra mondiale. potrebbe esserne alterato in maniera che entrambe le parti giudicherebbero forse poco soddisfacente.
La centocinquantesima ricorrenza della data in cui Italia risorgimentale portò a compimento il progetto politico che era già nelle aspirazioni politiche di Dante, come di Machiavelli e di Petrarca, è dunque una ricorrenza per molti aspetti amara. Ma il dolore è parte costitutiva dell’esperienza storica del popolo italiano, così come di tutto il popolo cristiano. E come insegna la grande e antica saggezza dell’Italia meridionale, le memorie amare sono quelle che vanno tenute più care.
Giuseppe Sacco