In due giorni di dialogo e confronto in occasione del suo recente congresso, il percorso di “Insieme” ha avuto un impulso di idee e un perfezionamento della forma organizzata.

La nuova realtà culturale e politica si sta consolidando ed è giunta alla sua prima espressione congressuale di formazione anche di un partito, dotato di adeguati organi istituzionali, con un carattere non usuale, nella forma che si riconduce alle idee base dichiarate, orientate a valorizzare prevalentemente il lavoro in comunità, piuttosto che affidarsi a servizi garantiti individualmente. Infatti, uno dei nodi affrontati, con scelte espresse alla fine dei lavori, ha fatto prevalere l’idea di una struttura mai personalizzata su cariche individuali (per esempio: il segretario di partito), ma risolta con gruppi di lavoro.

Questo costituisce certamente un primo passo avanti rispetto alle strutture tradizionali dei partiti, fondati sulla cultura della delega a essere rappresentati, dove troppo spesso tale orientamento si esaurisce in un capovolgimento del rapporto tra elettore e sua rappresentanza politica, dove il primo da persona che sceglie diventa supporto della volontà del rappresentante, sicché all’elettore, in caso di dissenso, non resta che la possibilità di cambiare partito o, come ormai accade diffusamente, lasciar perdere con la “politica”, con gli esiti disastrosi che viviamo da più di un ventennio.

L’espressione di una proposta, delineata in diversi interventi, che si radica in tre posizioni da considerare i capisaldi di una articolazione politica permanente, ha proposto di passare dall’attuale schema duale tra società e strutture di governo (ormai ridotto a dialettica tra chi nella società esprime il maggior potere – cioè i vertici del mondo economico – e il partito di maggioranza) evolva in uno schema più ampio, dove un terzo soggetto è chiamato a interagire, attraverso le molte strutture che concorrono a determinarne il campo: il “Terzo settore”.

E’ un’idea che ha una certa storia- dovrei tornare a Giovanni Gozio e all’Ispes – che non è il caso qui di riprendere, ma che mi consente di cercare di risolvere almeno un equivoco che si è determinato sul concetto di democrazia diretta. Il termine è stato strumentalizzato da chi ha usato la parola “diretta” gridandola dal palco con il rombo dell’altoparlante, su una folla di scontenti, disposti però a diventare gregge elettorale.

Brutta cosa la strumentalizzazione, come avvenne già una volta nella breve storia d’Italia (mi tocca tornare indietro di un secolo) dove il simbolo dello “stare insieme” dei contadini siciliani fu strumentalizzato da chi lo assunse a insegna di potere di una nuova oligarchia, aggiungendo al “fascio” dei siciliani l’aggettivo “littorio”.

L’idea di “democrazia diretta” appare nei dialoghi promossi da chi lavorava a nuove prospettive culturali e politiche, nel pieno dei tentativi di rinnovamento avviati in quella ricca, controversa, talvolta drammatica fase che ebbe inizio con la grande stagione – tra la fine degli anni ’50 e il decennio successivo – fase di rinnovamento dei contratti di lavoro dello “autunno caldo”, della “contestazione giovanile”, contrappuntata dal dramma del terrorismo. Era un’idea supportata dal diffondersi di nuovi strumenti di comunicazione, in quel tempo innovativi e oggi in fase più avanzata, seppure tecnologicamente ancora molto evolutiva.

Nel clima di confusione, dove la politica fondata sul principio della rappresentanza evolveva verso forme sempre più clientelari, nel tramonto delle ormai superate ideologie guida su cui si erano fondati i partiti di governo e di opposizione nati dal processo di liberazione dal fascismo, l’idea di democrazia diretta, dunque, degenerò.

La strumentalizzazione dell’idea di democrazia diretta si ammantò di parvenze culturali attraverso l’azione di chi concepì l’idea di un affiancamento dell’azione di diffusione delle idee (il palco!) con una strumentazione di tipo imprenditoriale, dove la necessaria elaborazione delle idee e delle proposte si confondevano in una struttura supportata da varie forme di finanziamento pubblico e privato, illusoriamente definita autofinanziamento.

Su tali equivoci, la riproposta oggi della democrazia rappresentativa come unica soluzione, in una fase dove il ruolo delle impostazioni ideologiche è ampiamente superata, né sostituibile da un richiamo a “valori” che necessitano di ampia diffusione culturale e un nuovo radicamento in sistemi organizzati, oggi tutti da ripensare, appare decisamente fuori dalla storia: occorre passare alla complementarità di democrazia rappresentativa (comunque irrinunciabile per ovvie ragioni non solo pratiche, ma anche politico-giuridiche) e democrazia diretta, o meglio, partecipata, con il migliore utilizzo di strumenti di comunicazione che stanno cambiando radicalmente la relazione tra conoscenza/decisione/azione e costituendo una sorta di barriera intergenerazionale, avendo rapidamente determinato nuove modalità di comprensione e partecipazione, molto esplicite nei comportamenti della generazione più giovane, a cui però viene fornito solo un sovrabbondante prodotto commerciale di intrattenimento e orientamento al consumo.

Tutto ciò indica possibili percorsi da strutturate in maniera adeguata, a sostegno di una nuova fertilità nell’esprimere idee, in attività di formazione che non si risolvano in “scuole” con qualche esibizione del “noto politico” di turno, ma nello scegliere e formare operatori che non siano dei “rappresentanti” adibiti alla contrattazione tra fazioni, ma degli attuatori di programmi fondati sull’idea che su “quanto ci unisce si governa e su quanto ci divide si continua a ricercare e discutere” (questa frase ha una lunga storia, da Felice Balbo a Ernesto Baroni, nel percorso verso una democrazia compiuta) sostenendo permanentemente gruppi e sedi di ricerca e formazione.

Qui si pone una terza questione (che nell’incontro di Roma è apparsa appena delineata, ma già con radici in iniziative che localmente si stanno esprimendo); è il tema dello sviluppo di una cultura del “fare politica” non solo delineata al fine di formare possibili nuove masse elettorali, ma persone capaci di aderire a logiche di partecipazione, quindi di servizio.

Si può dire che comincia a delinearsi un orizzonte dove appare sempre più definita una forma di democrazia partecipata che emargina la figura del “politico-leader”, con percorsi che non si chiudono su modesti esiti misurati in percentuali di successo elettorale, ma che concepisce la politica come dialogo, confronto, crescita della capacità di scelta e decisione, con tre pilastri istituzionalizzati nel mondo economico, nei partiti, nel terzo settore, capaci di coinvolgere non solo nel consenso, ampie parti della società.

Due punti critici, che possono diventare negativi. Se non stiamo attenti, l’essere già diventati un partito rischia di ridursi a un percorso che a me pare troppo ripido e in discesa, una discesa di valore e una calata di capacità di coinvolgimento.

Nel dibattito è apparso molto chiaro che, in una parte dei partecipanti, l’avvio di un partito è visto come vero e unico progresso verso una forma più concreta di presenza nel confronto tra le forze in gioco, significando così la riduzione della politica a percorso dialettico ed elettorale e con ciò ripetendo l’errore commesso dal mondo cattolico, che nella sua parte più istituzionale, per meglio qualificarsi, impose l’aggettivo “cristiana” alla nuova via della democrazia.

Con il rischio – direi la certezza – di diventare l’ennesimo piccolo partitino, ben che vada destinato a contrattare una presenza parlamentare utile solo come punto di osservazione, peraltro altrettanto ben realizzabile stando fuori dalle Aule. Punto negativo che mi è parso altrettanto chiaro nel breve riferimento alla vera dimensione politica – quella europea – significativa nell’ipotesi di saper contribuire a modificare la pericolosa rotta politica mondiale, oggi totalmente percorsa senza una bussola alternativa a quella usata dai poteri economico-finanziari.

Il cenno all’Europa è stato svolto come idea di inserimento nello schieramento del PPE: con quale ruolo, mi chiedo, se non essere l’ennesima piccola frazione destinata solo a collocare qualche occhio osservatore, con compito di alzare la mano a comando?

Andremo in Europa e nel mondo, se “insieme” sapremo cogliere quanto di politico c’è nelle esigenze e nei desideri di tanti (ecco dove ci sono anche tante nuove forze di generazione più giovane!).

Il Terzo settore è la miniera che può alimentare una macchina che potrà percorre un lungo itinerario, a patto che la politica ritorni a essere confronto, discussione, capacità di scelta e di indirizzo, con il partito come strumento per una parte importante, ma non unica, di espressione di presenza storica.

Tre a due: si progredisce anche così, anche se tutti ci auguriamo di accelerare l’andatura, superando metodi vecchi di confronto, come il voto su mozioni!

Mario Fadda

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