L’impatto della crisi ucraina sulle relazioni internazionali e sull’economia può essere devastante, ben oltre le conseguenze che sono già manifeste nella ripresa dell’inflazione, palesemente influenzata dalle vicende geopolitiche, che rappresenta già a tutti gli effetti una mina vagante per la tenuta delle strategie adottate per l’obiettivo di rendere sostenibili e più inclusive le economie nazionali.

I livelli di cooperazione tra le istituzioni sovranazionali e nazionali che sono stati attivati per contrastare gli effetti della pandemia e per favorire una rapida ripresa dell’economia hanno generato le aspettative di un grande balzo delle relazioni internazionali reso possibile dalla condivisione di obiettivi di sostenibilità ambientale e di equità redistributiva tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo.

Il ritorno delle politiche di potenza, in particolare quelle messe in atto dall’inedita alleanza tra la Cina e la Russia tesa a ridimensionare il peso dei Paesi sviluppati storici nella “governance” delle relazioni internazionali, a partire dalla gestione dei trattati per il libero commercio avviati con la costituzione della Wto (World trade organization) nel 1995, non è un incidente di percorso, ma la conseguenza finale di dinamiche che erano state sottovalutate dal pensiero dominante che ha ispirato le scelte operate a partire dal crollo dell’impero sovietico.

L’evoluzione delle relazioni internazionali negli ultimi trent’anni rimane fondata su tre assunti: a) che l’apertura dei mercati e l’ampliamento degli scambi commerciali rappresentano la migliore condizione per prevenire i conflitti tra le nazioni; b) che la diffusione dell’economia capitalistica di mercato costituisca la via maestra per affermare le libertà individuali e per stimolare un’evoluzione democratica dei regimi politici autoritari; c) che l’aumento del benessere economico e della libertà di espressione sia destinato a favorire una crescita dei diritti civili e sociali della popolazione. Un approccio confortato dalle esperienze storiche dei Paesi sviluppati, ivi comprese le tragiche lezioni scaturite nelle due guerre mondiali dello scorso secolo, e dalla presa d’atto che non esistono precedenti di conflitti bellici tra Paesi governati da istituzioni democratiche.

Gli indicatori utilizzati dal Democracy Index del settimanale Economist per stimare il grado di democrazia reale delle istituzioni in 165 nazioni (tra le quali solo 85 vengono classificate democrazie perfette o con un sufficiente grado di libertà e di partecipazione democratica) mettono in evidenza una riduzione delle libertà individuali e collettive nei Paesi autoritari, o con forme ibride di democrazia, nel corso dell’ultimo decennio. Il caso cinese rappresenta un’inedita combinazione tra l’autoritarismo statale e un abile sfruttamento delle opportunità derivanti dalla liberalizzazione dei commerci, per accumulare una mole sterminata di surplus commerciali utilizzati successivamente per rafforzare i propri asset tecnologici e la dotazione delle materie prime fondamentali per lo sviluppo delle tecnologie digitali ed ecosostenibili (che viene stimata sul possesso del 60% dell’estrazione mondiale) e per sostenere i Paesi indebitati. Un’espansione della propria influenza che non ha precedenti della storia moderna, accompagnata dalla sostanziale indifferenza dei Paesi democratici. Gli indicatori della crisi dell’approccio occidentale erano già visibili nella crescita dell’influenza del fondamentalismo islamico nelle istituzioni dei cosiddetti Paesi moderati, per l’indebolimento dei livelli di coesione interna che costringono i Governi di turno dei Paesi democratici ad assecondare le mutevoli aspettative delle pubbliche opinioni sulla base delle convenienze di breve periodo.

Per svariate ragioni, non ultima quella legata alle conseguenze del declino demografico, siamo nel bel mezzo di una crisi del pensiero occidentale, ma facciamo finta di non saperlo. Anzi, pretendiamo di imporre obiettivi e comportamenti sulla base di letture distorte delle dinamiche dei Paesi in via di sviluppo, delle ambizioni democratiche delle popolazioni che vi abitano frustrate dai despota di turno, dalla supina accettazione del destino multiculturale delle nostre comunità nazionali. 

Nel giro di pochi mesi sono saltate le certezze in termini di approvvigionamento delle materie prime, stabilità dei prezzi e sostenibilità dei mezzi finanziari presi a prestito. Nel mondo globalizzato le crisi saranno sempre di più caratterizzate dalla rapidità e dalla trasversalità degli impatti che, a prescindere dalla loro natura originale, tendono a invadere la sfera economica e sociale. Pertanto destinate a ridefinire le caratteristiche delle relazioni a tutti i livelli: individuale, comunitario, internazionale.

Come minimo dovremmo prendere atto che i costi della transizione economica saranno elevati, appesantiti dalla dipendenza da fattori non strettamente economici e che impongono un serio ripensamento delle strategie di politica industriale tenendo conto dei punti di forza e di debolezza del nostro apparato produttivo.

Non possiamo farlo da soli. L’Europa è importante e potrebbe esserlo di più se fosse dotata di una politica estera e di difesa comune. Cosa praticamente impossibile nel breve periodo, costringendo ogni nazione aderente a muoversi autonomamente per difendere gli interessi nazionali. Nel giro di dieci anni si è quasi completamente esaurito l’orizzonte della politica estera condiviso per lunghi anni dai Governi di diversa estrazione politica che si sono alternati alla guida del nostro Paese, fondato sul rafforzamento delle relazioni con la Libia e con la Russia. Il tema della ricostruzione delle alleanze internazionali e industriali nella gestione della transizione energetica e produttiva va assunto con rapidità e realismo, e deve diventare oggetto di aggiornamento degli obiettivi del Pnrr.

Siamo tra i paesi più invecchiati del Globo terrestre, ma tra quelli sviluppati siamo l’unico con la popolazione che lavora largamente inferiore rispetto a quella a carico. Lo sport preferito dalla nostra classe dirigente, assecondata da una buona parte dell’opinione pubblica e dei mass media, è quello di inventarsi tutti i modi possibili per sovvenzionare con le risorse pubbliche le persone che non lavorano. Il trend va rapidamente invertito, le risorse devono essere destinate a chi investe e alle persone che si danno da fare per generare conseguenze positive per la comunità.

Nei prossimi mesi sono attesi passaggi difficili. Per la constatata debolezza delle forze politiche che continuano a rivendicare ulteriori ampiamente della spesa senza alcun limite, rimane in capo al Governo la decisione di mettere fine alla follia della “bonus economy”, a uno spreco di risorse pubbliche che non ha precedenti e del tutto assimilabile a incendio della foresta per fare le uova al tegamino.

La sfida diventa quella di generare un consenso adeguato su scelte radicali in grado di rimediare le cause del declino economico pluridecennale e di selezionare una classe dirigente in grado di portarle avanti.

Natale Forlani

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