Trent’anni fa esatti arrestarono il “mariuolo” Mario Chiesa. Lo definì così il suo capo partito Bettino Craxi che già aveva sottovalutato precedenti incidenti di percorso in cui erano incappati i suoi socialisti, come quello dei famosi “semafori intelligenti” avvenuto sei anni prima a Torino. Con Craxi, altri capi di partito avevano a lungo, troppo a lungo, ignorato i tanti incidenti di percorso di quel genere in cui erano rimasti coinvolti loro uomini. Non poteva, allora, durare.

Se oggi parliamo della necessità di “trasformare” il Paese, a partire dal suo sistema politico-istituzionale, però, c’è da riflettere davvero su come siano passati questi tre decenni e a che cosa sia servita quella che resta, comunque la si voglia vedere, una fase drammatica nella storia repubblicana italiana.

Una pagina dell’Unità, la numero 6 del 21 maggio 1986 (CLICCA QUI) dà uno spaccato di quel “vaso di Pandora” destinato ad esplodere il 17 febbraio del 1992  e poi passato alla storia come “Mani pulite”. In quella pagina non si parla solo dei semafori intelligenti, a proposito dei quali si cita il coinvolgimento della Fiat e di” esponenti comunisti”. In due articoli sottostanti, altri personaggi politici risultano coinvolti in poche commendevoli vicende pugliesi e siciliane.

Un andazzo che già squalificava da tempo la gestione della cosa pubblica. Con la Politica che stava diventando una “professione”, e non sempre rispettosa delle regole. Cose risapute, ma che non spingevano alcuno a preoccuparsi di come dovessero essere trovati i meccanismi in grado di limitare i fenomeni di corruttela. Non c’era una parte sana e un’altra malata: i corruttori cercavano potenziali corrotti e viceversa.

Nel 1985 girai in lungo e in largo l’Italia per realizzare un documentario sulle carceri. Ebbi così la ventura di conoscere l’allora magistrato responsabile del Carcere mandamentale di Abbiategrasso che, dopo le riprese tv e l’intervista di rito, ebbe la bontà d’invitarmi a pranzo. Chiacchierando del più e del meno, mi parlò del pesante clima che si viveva a Milano, dell’arte delle tangenti che vi si praticava e del circuito vizioso da decenni stabilito tra imprese e politici. A suo avviso, non si salvava nessuno. La mia impressione, ma mi astenni dal chiederne conferma, fu che quel magistrato fosse un democristiano, o giù di lì. Non era certamente una “toga rossa”, come stava già di moda definire molti inquirenti impegnati nella battaglia contro la corruttela. Sbagliando, perché anche tra quelli del pool di “Mani pulite” non tutti erano da considerarsi dei “pericolosi” estremisti. Quel magistrato, che molto credeva nella possibilità di un carcere destinato alla riabilitazione, mi espresse l’opinione che prima o poi a Milano sarebbe scoppiato qualcosa di grosso. In effetti, ci vollero sette anni, ma poi la bomba scoppiò.

Come tutte le bombe, fece morti e feriti, anche tra gli innocenti. Distrusse carriere, e persino vite, anche di chi non aveva molto da farsi rimproverare. Alto il numero dei prosciolti o successivamente assolti nei diversi gradi di giudizio. Alto anche il numero dei prescritti. A conferma che, come vale per tutti i fatti storici, non si tratta di un evento da esaltare o, al contrario, da demonizzare, ma solo di prendere atto della fondatezza di taluni suoi aspetti che convivono con errori e strumentalità.

Trent’anni dopo, comunque, ne vediamo il risultato più significativo: la fine dei partiti popolari di massa che pure molto avevano fatto per ricostruire l’Italia.

“Mani pulite” giunse dopo la caduta del Muro di Berlino. Dentro, ma forse soprattutto fuori dall’Italia, si volevano superare gli equilibri politici e sociali nati nel Secondo dopoguerra. L’inchiesta a carico di Chiesa, sorpreso ad incassare una “modesta” tangente da sette milioni di lire d’allora, estorta all’imprenditore di una piccola ditta di pulizie, non era più importante o più eclatante di quelle che già da un pezzo trovavano ospitalità sulle pagine dei giornali. I corruttori, cioè gli imprenditori, da decenni sapevano come preparare le buste piene di denaro o erano in grado di accordarsi con antiquari e galleristi per utilizzare forme di pagamento più raffinate. I loro fidati dipendenti sapevano sapientemente predisporre, poi, le altre buste: quelle che, nel caso di vittoria di un appalto pubblico dovevano essere distribuite, e con contenuti adeguatamente ponderati, e con somme via via decrescenti, destinate ai direttori generali, ai loro sottoposti e, persino, agli uscieri: servivano a sveltire le pratiche d’incasso. Può darsi che senza la caduta del Muro di Berlino, cioè come ai tempi del mio incontro con il giudice di Abbiategrasso, Mani Pulite non sarebbe mai esplosa? O almeno senza deflagrare cosi violentemente com’è accaduto?

Abbiamo spesso sentito dire a Di Pietro che il successo di “Mani pulite” lo si dovette alla fila d’imprenditori che si creava in ogni procura perché sentivano il bisogno di … sgravarsi la coscienza e, soprattutto, mettersi al riparo. Tanto era via via diventato chiaro come fosse in atto il divellere di un intero sistema, indipendentemente dalle intenzioni dei magistrati inquirenti, o di una buona parte di loro. In effetti si finì per andare oltre l’indagine giudiziaria e, con “Mani pulite”, si avviò il superamento della Prima Repubblica. Ne nacque una “nuova”, ma che a ben guardare tale, cioè “nuova” per ciò che riguarda la morale pubblica e i fenomeni di corruzione, non lo è mai stata. Gli imprenditori che corrompevano prima, in molti casi, hanno continuato a farlo come se niente ci fosse stato. In ogni caso, come dimostrano le tantissime inchieste di cui ci hanno raccontato gli ultimi tre decenni possono essere cambiati i metodi, ma non il sistema.

In effetti, le inchieste avviate nel 1992 fa non andarono a fondo su tanti versanti, su cui pure si doveva esplorare. Ad esempio, su quanto costituito da quella “cerniera” formata dalle strutture burocratiche che, ad ogni livello, fanno da interfaccia, e spesso mediano, tra istituzioni e imprese. Non si è andati al vero nocciolo della questione qual è quello non tanto e non solo di indagare e condannare i politici corrotti, e sappiamo bene di quanto purtroppo ce ne sia bisogno ancora oggi, ma di trasformare completamente il sistema degli appalti pubblici.

Su tutto, poi, brilla la mancata riforma del sistema dei partiti e la non regolamentata attività del “lobbismo” che continua ad imperversare a tutti i livelli, nazionale, regionale e locale. E’ evidente che si deve partire dall’applicazione dell’art. 49 della Costituzione e, dunque, della vita interna e delle “relazioni” dei partiti con il tessuto economico ed imprenditoriale. Fino a quando non si metterà mano a ciò “Mani pulite” resterà sempre questione rimasta in sospeso.

Guardando da lontano quelle vicende, nonostante le ripetute dichiarazioni dei magistrati inquirenti di allora, in molti sono convinti che non si colpì allo stesso modo in tutte le direzioni. Cosa che non riguarda solamente il piano politico. Del resto, il combinato disposto formato dall’azione della magistratura e dalla spettacolarizzazione delle indagini lasciò in ombra molte cose che non funzionavano nel sistema economico italiano, pubblico e privato, soprattutto quello delle grandi famiglie imprenditrici, e nelle loro relazioni con la politica, le istituzioni e gli apparati burocratici. I giornalisti di giornali e televisioni, che pure a qualcuno appartenevano, bivaccarono per circa due anni di fronte al Tribunale di Milano partecipando alla scelta di chi colpire e chi lasciare al di fuori da una vis giudiziaria che influenzò molto il Paese. Finì che qualcuno non solo si salvò, ma fu in addirittura in grado di ritrovarsi  tra le proprie mani più potere e più libertà d’azione di prima, mentre altri pagarono un prezzo alto come fu nel caso di alcuni suicidi eccellenti o di gente esposta alla gogna mediatica senza che lo meritasse.

Giancarlo Infante

 

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