Il caso di parlamentarismo deteriore che la tragica Italia del 2021 ha visto – o meglio, è stata costretta a vedere – svolgersi e prender corpo nella serata di martedì 19  gennaio,  ha suscitato non pochi commenti che potrebbero rientrare nella categoria dell’humor nero. Eppure, anche se si è trattato di uno spettacolo inverecondo, conclusosi con un pateracchio della peggior specie, esso non è privo di un significato politico, anzi di più di un significato.

Il risultato di questa giornata atro signanda lapillo sembra infatti aver in primo luogo dimostrato che– come è stato detto – Conte è davvero “assolutamente invincibile”. Ma di fatto consente anche di intuire come esistano, nel sistema dei poteri del nostro paese, caratteristiche strutturali che spiegano più che a sufficienza perché mai Daniel Gros, un economista tedesco molto influente a Bruxelles, abbia tratto– come ha fatto in una dura intervista all’Huffington Post – una lapidaria conclusione: “il punto non è il governo, il punto è l’Italia che c’è dietro.”

Che Conte fosse “assolutamente invincibile”, molti lo sospettavano. E non da oggi. Il principale argomento che veniva portato a sostegno dello statu quo, della sua permanenza a Palazzo Chigi, era infatti troppo estremo, troppo meschino e troppo ricorrente, per non apparire come una parola d’ordine reiterata e diffusa in maniera sistematica da un tam tam organizzato e lungamente rodato nei sottoboschi del potere.  L’argomento secondo il quale la violenza dell’epidemia, che in Italia ha già fatto più della metà delle morti provocate dalla Seconda guerra mondiale, impedirebbe oggi ogni cambiamento ai vertici del Governo. Come dire che dopo Caporetto si sarebbe dovuto, proprio per l’enormità della disfatta, continuare con l’antiquata, sanguinosissima e perdente strategia di Cadorna, anziché fare ricorso alla elastica e vittoriosa concezione di Armando Diaz.

E poi, se molti sospettavano che Conte – nonostante la Caporetto quotidiana registrata sul fronte del Covid – fosse “assolutamente invincibile”, qualcuno si era già spinto sino a dirlo apertis verbis, pochi giorni prima di martedì 19 gennaio. E lo aveva detto da un pulpito di massima visibilità, qual è da considerare la trasmissione televisiva curata niente meno che dalla figlia Enrico Berlinguer (CLICCA QUI  ).

A osare tanto, erano stati in tre, tutti personalità molto note del monto culturale e giornalistico italiano. Il primo e il più coraggioso dei quali si era dimostrato l’ex sindaco di Venezia, il filosofo Massimo Cacciari, che aveva spiegato anche come mai Giuseppe Conte disponesse di tanta capacità di resistenza di fronte alle accuse di incapacità di alcuni dei suoi ministri. E soprattutto di fronte alle accuse – in seguito riconosciute come fondate – di non aver saputo mettere a punto un Recovery plan in grado di superare l’esame cui tale documento sarà sottoposto a Bruxelles prima che esso sia in tutto o in parte finanziato. Possibilità questa che è profondamente errato considerare pressoché automatica, o dare per scontata.

Ma da dove deriva la forza di Conte? Nella squallida Italietta in cui i Cinque Stelle bivaccano in un terzo dei seggi di Montecitorio, Conte è “assolutamente invincibile”, ha detto Cacciari, perché “ha dietro di sé qualcosa che sfugge… una sorta di energia forte”. E per chi lo ascoltava era stato inevitabile pensare che si trattasse di quella “energia” che – come disse, in una difesa quasi ufficiale, l’ex-radicale Massimo Teodori – “non fa male a nessuno”, ma che evidentemente fa assai bene a Conte e ai collaboratori che egli si sceglie, e ai quali senza sosta affida compiti aggiuntivi sempre più complessi e numerosi, sostituendoli di fatto ai Ministri del suo stesso governo. Una “energia”, dunque, davvero assai potente e presente nei gangli della democrazia italiana, eppure una “energia” che non si può nominare. Il cui nome, come ha affermato Cacciari sul proscenio di Bianca Berlinguer, non si può pronunciare.

Nonostante il tabù. l’allusione di Cacciari appare tuttavia assai trasparente. E ad essa aveva risposto con uno dei suoi larghi sorrisi, l’ex direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, personalità assai visibile sulla scena della società italiana, ormai depositario ufficiale della Storia Patria, e pertanto preposto a raccontarla ed interpretarla su tutti i canali della televisione di Stato, con una presenza tanto intensa da far pensare che essa preluda ha un suo nuovo ruolo pubblico. Eppure, anche se Mieli ha dato la sensazione di saper bene a chi e a che cosa si riferisse l’ex sindaco di Venezia, neanche lui ha osato farne il nome. Tanto che c’è voluto tutto il senso di sicurezza di cui gode Gad Lerner per dire che si tratta di “una Massoneria nascosta, trasversale, che ha riferimenti interni e internazionali”.

Una Massoneria nascosta e con riferimenti internazionali”; cioè un’entità, che – se si prendono per buone e responsabilmente espresse le opinioni degli ospiti di Bianca Berlinguer – non ricadrebbe necessariamente nella stessa categoria delle tre principali “comunioni” di obbedienza massonica ufficialmente presenti nel nostro paese: Il Grande Oriente d’Italia, la Gran Loggia Nazionale d’Italia e la Gran Loggia Regolare d’Italia. Alle quali peraltro va aggiunta una formazione un po’ diversa e interessante, la cosiddetta “Massoneria democratica”, che sembra attivamente impegnata in un’opera di modernizzazione e di completo distacco dagli ambienti semi-delinquenziali di cui gli italiani vennero per la prima volta a sapere all’epoca della P2.

Sarebbe dunque a questa forza, invisibile e innominabile sugli schermi TV, occupati da comparse come la Polverini e l’ineffabile Ciampolillo, che risponderebbe Conte, l’uomo “venuto dal nulla”,  per usare la definizione datane da Paolo Mieli. E non al popolo Italiano, del quale egli si è motu proprio proclamato “avvocato”, già all’epoca in cui presiedeva il governo Salvini-Di Maio. E non alla plebe televisiva presso la quale – a forza di ore e ore di presenza sul piccolo schermo – ha finito per conquistare una popolarità che Massimo D’Alema, in odio a Renzi, ha molto enfatizzato, ma che oggi molti sembrano cominciare a considerare pericolosa, se non per la democrazia, almeno per l’attuale sistema di potere.

Se davvero fosse questo lo sfondo sul quale vanno collocati gli squallidi eventi che abbiamo potuto seguire in televisione la sera di martedì 19 gennaio,  e che hanno anche suscitato forme di disperata ilarità per il profilo umano e culturale  dei personaggi che Conte è riuscito ad arruolare,  diventerebbe allora più che comprensibile la posizione assunta da Matteo Renzi.  Assumerebbe infatti un significato preciso l’astensione del suo gruppo, che conta un numero di senatori relativamente piccolo, ma sufficiente a far uscire la maggioranza con dignità da quello che doveva essere un confronto politico, e che è invece immediatamente diventato uno sguaiato e vergognoso mercato delle vacche.

Le parole di Renzi erano state appena velate, quando negli ultimi tempi aveva ripetutamente fatto notare che, dal suo punto di vista, non avrebbe avuto senso essersi opposto alla pretesa, peraltro più ipotizzata che chiaramente espressa, dei pieni poteri da parte di Salvini, solo per riconoscerli de facto a Giuseppe Conte. Solo per veder nascere una situazione in cui questi – pur privo di qualsiasi investitura popolare – continuasse a monopolizzare non solo tutta l’attività legislativa che di norma spetterebbe al Parlamento, ma anche l’esclusivo controllo dei servizi segreti. E continuasse a farlo con il consenso della sinistra, e di un aggregato come i Cinque Stelle, politicamente indefinibili, ma che avevano sancito nel loro documento iniziale una incompatibilità proprio con l’appartenenza massonica.

Se c’è nella loro astensione al momento della fiducia un significato politico, il gruppo d’Italia viva potrebbe insomma essere considerato come disponibile a rientrare nella maggioranza, ed a votare la fiducia al suo premier. Con l’indiscutibile beneficio che verrebbe così posto termine ad una situazione – quella messa in luce dal voto di fiducia al Senato –  che non può che tornare a permanente discredito dei partiti della coalizione di governo, LEU e PD in testa, e che non può non porre nell’elettorato le premesse di futuri nuovi voti di protesta o espressi a dispetto.

Ma questa ricomposizione di una maggioranza rafforzata in virtù di una convergenza politica, e non già affibbiando un provvisorio e poco credibile collare a un’accozzaglia di “cani sciolti”, sarebbe sottoposta alla condizione che il Presidente del Consiglio sia persona diversa da quella che al momento attuale siede a Palazzo Chigi. E che da molti, troppi mesi concentra di fatto una quota eccessiva dei poteri che la Costituzione della Repubblica suddivide tra soggetti diversi, e che saggiamente sottopone a un equilibrio di reciproci controlli e bilanciamenti.

Giuseppe Sacco

 

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