Da qualche giorno assistiamo a polemiche tra Roma e Torino, a proposito della sede dove ospitare un’organizzazione internazionale di media importanza. E sono polemiche che hanno un po’ sorpreso, dato che, con questo premier, il problema delle” Due Italie” sembra essere passato in secondo piano nel dibattito politico nazionale. Ne parliamo con Giuseppe Sacco perché la cosa investe almeno due questioni centrali tra quelle che riguardano un’Italia di trasformare: la burocrazia e il problema degli squilibri territoriali.
Giuseppe Sacco – Effettivamente, da parecchi anni, i problemi dello squilibrio regionale non ricevono più l’attenzione che meritano, anche perché la qualità del personale amministrativo e politico espresso dal Nord è cambiata in maniera impressionante. Basta pensare all’impreparazione in cui Fontana ha fatto trovare la Lombardia di fronte all’emergenza sanitaria, e invece alla capacità di leadership di cui ha dato prova il Governatore della Campania, De Luca. Quella di oggi è un’Italia afflitta da un problema più grave di dell’Italia di quarant’anni fa, in cui all’arretratezza e alla povertà del Sud si contrapponeva la valle del Po, dove il reddito è invece stato per anni superiore di un buon 30% a quello medio dell’intera Unione Europea.
Giancarlo Infante – La crisi qualitativa della pubblica amministrazione è ormai un problema che investe tutto il Paese, eppure tale crisi è parsa in tempi recenti non suscitare più molto interesse ed attenzione nell’opinione pubblica e nella classe politica nazionale.
Giuseppe Sacco – Indubbiamente! E ciò è estremamente allarmante non solo in relazione a quel che ci attende nelle prossime settimane sul fronte della pandemia, ma anche sul delicatissimo fronte economico-sociale, oggi che l’Europa ci spinga indebitarci il più possibile per contribuire più fortemente al rilancio della domanda nell’intera area comunitaria.
Giancarlo Infante – Non vedi, nel battibecco tra Roma e Torino, un certo ritorno alla consapevolezza della necessità di curare meglio gli squilibri tra Nord e sud.
Giuseppe Sacco – Francamente no. Mi pare invece significativo che le più recenti polemiche su questo tema si riferiscano a questo tipo di squilibrio territoriale, quello appunto messo in luce dalle proteste venute da Roma per il fatto che il premier Conte si è completamente dimenticato della Capitale, peggio addirittura della inqualificabile sindaca Raggi, quando si è trattato di indicare possibili sedi italiane per delle organizzazioni internazionali, orientandosi invece a fornire appoggio alle candidature di Milano è Torino.
Giancarlo Infante – Non credi che, in qualche misura, questo tipo di proteste possano essere considerate come ispirate da un sentimento meridionalista.
Giuseppe Sacco – No. Certo che non possono esserlo! Al contrario, la protesta venuta da alcuni ambienti capitolini non parte dalla presa d’atto di quanto sia oggi opportuno, o meglio e indispensabile e urgente riequilibrare la distribuzione delle attività terziarie superiori sul territorio nazionale. La protesta nasce invece dalla contrapposizione tra una logica del centralismo amministrativo a quella del centralismo economico. La protesta che tanto spazio ha trovato sul “Messaggero”, si inserisce solo nel luogo comune assai diffuso in passato dell’esistenza, nella Penisola, non di una, ma di due “capitali”; di una capitale politica e soprattutto simbolica, Roma, e poi di Milano, che se capitale Italia non era ufficialmente, lo era “moralmente”. E a difesa dei milanesi bisogna dire che con lo slogan della “capitale morale” essi non hanno mai voluto intendere una superiore eticità del mondo degli affari sul mondo della politica. Sono troppo concreti e realisti per sparare una tale corbelleria. Volevano soltanto dire che in definitiva quelli che contavano davvero, erano loro.
Giancarlo infante – Proprio sul “Messaggero”, la Vicepresidente della Luiss, nonché ex Ministro della giustizia, Paola Severino, ha contrapposto una diversa visione, citando l’esempio dell’ENA, l’Ecole Nationale d’Administration, e della Francia che, a suo dire, sarebbe “convinta che l’élite burocratica di un paese vada formata con caratteristiche di eccellenza nella capitale in cui risiedono le istituzioni pubbliche centrali”.
Giuseppe Sacco – Il concetto sostenuto dalla Severino è chiarissimo; così come di drammatica urgenza appare la questione da lei evocata: la necessità di una pressoché totale riqualificazione della burocrazia italiana. Temo però che l’esempio su cui poggia tutto il ragionamento della vicepresidente della Luiss, l’esempio dell’ENA, non sia adatto a sostenere il suo punto di vista. Perché in Italia, quel che fa la Francia viene spesso citato ad esempio, ma in realtà è assai poco conosciuto. L’Ecole Nationale d’Administration, l’ENA, non ha infatti sede a Parigi, come invece affermato con grande sicurezza dalla Severino al “Messaggero”, ma a Strasburgo.
Giancarlo Infante – Come mai?
Giuseppe Sacco – Perché la Francia è un paese la cui struttura è molto più sofisticata che non quella dell’Italia, e in cui sulla qualità, sul ruolo e sull’orientamento politico-culturale della Pubblica Amministrazione si combattono battaglie politiche estremamente serie.
Quanto all’ENA, la sua creazione risale alla fase politica, immediatamente successiva alla Liberazione dell’Esagono dall’occupazione nazista; risale a quei pochi ferventi mesi in cui il Generale de Gaulle fu a capo del Governo, prima del lungo intervallo di dodici anni che egli dovette attendere per poter assumere la Presidenza della Repubblica, e salvare la Francia una seconda volta. E l’ENA, da lui voluta, fu effettivamente collocata a Parigi, in un piccolo fabbricato in rue des Saints Peres, fisicamente a ridosso – quasi per schiacciarlo – del celebre Institut d’Etudes Politiques, detto anche Sciences-Po.
Ora, Sciences-Po era stata per circo cent’anni la fucina della classe dirigente politica ed amministrativa di Francia; era cioè l’istituzione educativa che aveva formato e selezionato quella élite francese che nei primi anni 40, aveva finito per accettare la disfatta e la collaborazione con i nazisti. Aveva cioè educato la Francia contro la quale de Gaulle si era rivoltato, ponendosi alla testa della Resistenza, e di una “France Libre” che rivendicava la continuità con quella Repubblica cui il Maresciallo Petain aveva creduto di poter sostituire il cosiddetto “Etat Français”, reazionario ed antisemita.
Era dunque perfettamente comprensibile che de Gaulle – pur considerando che “la Repubblica non avesse mai cessato di esistere, e che Vichy fosse istituzionalmente “nul et non avénu” – volesse rinnovare e modernizzare la Francia; che volesse riportarla al rango che le spettava tra le grandi potenze occidentali dando vita ad una apposita istituzione per formare la classe dirigente all’altezza dei nuovi tempi e delle nuove sfide.
Giancarlo Infante – Sciences-po era dunque compromessa con il regime di Vichy?
Giuseppe Sacco – No, questo no. O almeno non più di quanto lo fosse stata la Francia nel suo insieme. Del resto il regime di Petain intraprese anche esso, nei pochi anni in cui restò al potere, il tentativo di creare una istituzione rivale, anch’essa teoricamente destinata a creare una futura classe dirigente, l’ Ecole des Cadres d’Uriage. Ma con il passare del tempo, dopo la scomparsa di de Gaulle e con l’allontanarsi anche nella memoria collettiva dello scontro politico tra le due Francie che si erano fatte la guerra nel 1940 il 1945, l’eterno establishment della Francia post napoleonica ha riconquistato molte posizioni. E così nel 1991, quando a Parigi Primo Ministro era un’altra donna, Edith Cresson, si decise di fare dell’ENA uno degli esempi della politica di decentralizzazione.
Giancarlo Infante – Insomma, si tratta di una vicenda completamente diversa da quella italiana.
Giuseppe Sacco – Assolutamente! In Francia, Parigi è contemporaneamente il centro politico ed il centro economico del paese. E soprattutto ha una forte tradizione unitaria – cui di era originariamente ispirata la nostra costituzione, prima che la nascita delle Regioni venisse a stravolgerla.
Però fin dall’epoca del Marchese di Vauban, che faceva pressione sul Re Sole perché si costruissero fortezze dappertutto, è sempre esistita una forte consapevolezza, che deve la sua presente attualità ancora una volta al generale de Gaulle, dell’importanza di una politica di riequilibrio regionale, che sistematicamente contrasti le tendenze centripete, oggi più forti che mai. Ed è, in una certa misura, da quella ispirazione che viene, e che dura tuttora, uno sforzo effettivo di decentramento, una politica che punta a diffondere sul territorio nazionale le attività di più alto valore, non solo economica, ma anche culturale.
In Francia sarebbe impensabile una diarchia di centri di potere, uno politico e l’altro economico, come quella che si vorrebbe istituzionalizzare tra Roma e le regioni del Nord. Come sarebbero impensabili le baruffe tra due centralismi, come quella in cui è così bizzarramente intervenuta la Vicepresidente della Luiss, liti di campanile se non di bottega che con l’impegno meridionalistico non hanno niente a che fare. Insomma, baruffe come quella che abbiamo visto nei giorni scorsi in questa povera Italia sempre più “sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa”, per dirla con Machiavelli. E spesso – come è stato saggiamente aggiunto – “campo di battaglie non sue”.