Al momento, uno dei temi centrali del confronto politico che attraversa la stessa maggioranza di governo è rappresentato dal Reddito di cittadinanza, la bandiera che il Movimento 5 Stelle ha orgogliosamente piantato sui territori conquistati nel “risiko” della politica nazionale. Un argomento di tale portata identitaria da aver meritato, a suo tempo, la sceneggiata del “balcone” di Palazzo Chigi del settembre 2018 per celebrare “l’abolizione della povertà”.

Infausta memoria – sia questa o quella la piazza in questione – che ricorre quando l’ora del destino batte sul quadrante della storia…..o qualcosa del genere. Cosa poteva meritare il rutilante annuncio di Di Maio se non finalmente la sconfitta, addirittura,  l’eradicazione della povertà? Perfino Nostro Signore si è sbagliato: non aveva messo in conto Di Maio. Infatti, molto più umilmente, ci avverte nel suo Vangelo, che i poveri li avremo sempre con noi. Non vi sembrò, dunque, poco perfino il balcone di Palazzo Chigi per un annuncio epocale del genere?

I nodi, però, vengono al pettine e, poiché il tema della povertà resta drammaticamente vero, anche la questione del Reddito di cittadinanza va esaminata seriamente, senza pregiudizi, senza ostilità preconcette, senza rivalse polemiche che cedano a sentimenti di dissenso nei confronti di chi l’ha proposto e sostenuto.

Imputare genericamente alla “globalizzazione” gli squilibri e le pesanti diseguaglianze sociali che lamentiamo, sia tra Paesi sviluppati o meno che all’interno delle singole comunità nazionali, è un po’ come buttare il pallone in tribuna
Si tratta di una affermazione di comodo che lascia in ombra il nodo più intricato delle cause e con-cause non tutte così immediate, bensì storicamente fondate che andrebbero colte più da vicino.

Anche perché rinviano a responsabilità di cui dobbiamo essere avvertiti. Non si tratta di descrivere un certo stato di cose, ma di prendere atto che viviamo circondati da ingiustizie che superano limiti oltre i quali si ferisce e si compromette la dignità di persone che, abbandonate nella loro indigenza, non necessariamente solo economica, faticano a sentirsi parte attiva della collettività, ma piuttosto spinte ai margini di un’accettabile misura di vita.

Purtroppo, anche il tema della povertà, nella fattispecie della discussione in ordine al Reddito di cittadinanza, è ormai diventato – si direbbe inevitabilmente – oggetto di una controversia ideologica o comunque orientata, al di là del merito in sé dell’argomento, ad un posizionamento di ciascuna forza misurato esclusivamente alle attese o ai presupposti di un possibile guadagno elettorale. Anche in questo caso, quella meccanica di rapporti politici forzosamente ispirati ad una contrapposizione frontale, imposta dal bipolarismo maggioritario, finisce per pervertire l’ oggettività della questione in campo.

Almeno due considerazioni preliminari andrebbero esaminate a fondo. La prima può sembrare banale o, meglio, talmente scontata da non doversi neppure porre. Cosa intendiamo davvero per “povertà”? Se ci riferiamo solo ed esclusivamente ad una carenza di carattere economico – connessa o meno a mancanza di una occupazione – siamo certi che basti provvedere comunque ad un reddito perché si acquisisca quella piena titolarità di cittadinanza che rappresenta l’elementare diritto di ciascuno?

La cittadinanza pretende di più. Esige inclusione sociale, capacità di provvedere da sé a sé stessi. Quindi, possibilità di costruire una famiglia, delineare attorno a sé un mondo di affetti ed un divenire delle generazioni. Vuole quel tanto di capacità critica e di autonomia di giudizio cui corrisponda una libertà autentica, non solo formale ed apparente. Evoca l’attitudine a dare piuttosto che a ricevere, perché solo così si assume nella collettività un ruolo attivo in prima persona. Suggerita da un amico sociologo, la più pregnante definizione di “cittadinanza” potrebbe forse essere questa : il diritto di avere doveri.

Da tutto ciò consegue come giustamente il “diritto di cittadinanza”, come declinato nel nostro Paese, sia, almeno nelle dichiarate intenzioni di chi lo ha promosso, orientato a garantire un’occupazione, possibilmente stabile.
Senonché, pare che esattamente questo obiettivo sia stato clamorosamente mancato, al punto di ritenere che cio’ fosse inevitabile data la strutturazione amministrativa del tutto.

Legittima la conclusione che, in effetti, non abbia torto chi afferma che, già “ab imis”, l’intero apparato messo in campo, altro non fosse che una gigantesca operazione di “voto di scambio” istituzionalizzato. Ovvio, pertanto, che la lotta alla povertà vada radicalmente ripensata, anzitutto con provvedimenti di perequazione sociale che riducano la forbice tra chi ha e chi non ha e mettendo in campo, nel quadro del PNRR, politiche attive dirette a favorire l’occupazione, soprattutto per le più giovani generazioni.

La lotta alla povertà è doverosa ed il punto va tenuto. Purché chi lo difende guardi alla sostanza e non alla rivendicazione di una forma che ha mostrato i suoi limiti ed avrebbe solo, dal loro punto di vista, il merito della difesa pregiudiziale della propria originaria presa di posizione. La povertà è inaccettabile soprattutto quando tocca bambini ed adolescenti. Nei loro confronti diventa devastante. Dal profilo economico tracima in termini di povertà educativa e culturale e compromette gravemente, fin da prima che abbiano piena coscienza, il loro futuro, rischiando di relegarli ad una disparità di condizione che è una perdita secca anche per la collettività nel suo insieme.

Un secondo versante da approfondire concerne, appunto, le diverse forme di povertà. Accomunate dal fatto di creare una qualche forma di obbligata dipendenza – dalle stesse forme di welfare meramente assistenziale – che compromettono quella indipendenza che della piena cittadinanza rappresenta un presupposto necessario.

Domenico Galbiati

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