Quando si affrontano problemi complessi sarebbe opportuno rinunciare a soluzioni semplici. E nel caso del conflitto israelo-palestinese, ciò vuol dire evitare di affidarsi a formule precostituite e ritenute valide a prescindere dalle condizioni alle quali si applicano. Parlare quindi di soluzione dei “due Stati” o di “uno Stato”, adottandola come assioma di partenza su cui costruire, a posteriori, una strategia forse non è il modo migliore di procedere.

Prima di arrivare a una conclusione sarebbe meglio partire dai dati di fatto. Il più evidente, e a mio avviso ormai incontrovertibile, è che gli approcci adottati finora si sono rilevati fallimentari. Pertanto sarebbe meglio cercare di comprendere il perché di questi fallimenti, visto che i tentativi di superare il conflitto – o comunque di instradarlo sulla via diplomatica – non sono stati pochi.

C’è poi un’altra precondizione essenziale per ogni ulteriore ragionamento sul tema: sforzarci di superare facili schemi ideologici che puntano a trovare “il colpevole”. Il che non significa rinunciare a individuare responsabilità precise all’interno di entrambe le parti. Schieramenti che non sono blocchi omogenei, ma presentano infinite sfumature e radicali contrapposizioni. La stessa complessità va tenuta in considerazione nel valutare gli scenari possibili e l’evoluzione della tregua appena raggiunta. Questo significa tener presente che Israele e la Palestina sono il fulcro di un ingranaggio fragile, nel quale converge anche il conflitto tra il mondo sciita e quello sunnita, compreso il disegno della Fratellanza musulmana. Ne sono parte vari convitati di pietra: i paesi del Golfo, con la novità rappresentata dai recenti accordi di Abramo, e la differenziazione del Qatar (più prossimo alla Turchia di Erdogan).
Oltre ad Hamas e l’Iran, gli Hezbollah del Libano (dove ricordo è presente un contingente italiano), i campi profughi palestinesi in Giordania e la Comunità Internazionale (che appare al momento troppo defilata). Sottolineo poi la questione delle diaspore che in mondi diversi, ma interconnessi, vantano entrambe una grande trasversalità politico-culturale.

Il raggiungimento della pace è il sogno, in una situazione di territori intersecati che vede le popolazioni coinvolte oppresse da una “sindrome di accerchiamento” da una parte e dalla perdita della propria dignità umana dall’altra.
Tutto ciò premesso, viene da chiedersi come mai, solo pochi giorni fa, Joe Biden abbia ribadito, senza lasciare adito a fraintendimenti, che la soluzione dei due Stati resta l’unica risposta possibile al conflitto. Anche perché nelle ultime settimane, almeno in America (ma non solo), sembra stia invece crescendo il fronte dei sostenitori dell’ipotesi di uno Stato per due popoli.

Foreign Affairs ad esempio, rivista riconducibile al prestigioso “think thank” Conuncil of Foreign Relations, lo ha scritto soltanto un paio di settimane fa: “Il vecchio approccio che consiste nel difendere la soluzione dei due Stati e supportare negoziati infiniti non è più conciliabile con la realtà sul territorio” e ancora: “È il momento che la comunità internazionale affronti una realtà che, stando ai sondaggi, la maggioranza dei palestinesi ha già compreso: una soluzione che preveda due Stati non è più praticabile”. Certo non sappiamo il motivo per cui Biden abbia voluto ribadire con tanta forza l’intenzione di puntare sullo stesso schema adottato finora. Ma potremmo anche
immaginare che al momento non abbia alternative. D’altronde, anche se la soluzione di uno Stato non è affatto un’idea nuova, non è mai stata posta come principio guida e obiettivo dei diversi negoziati intavolati negli anni.

Ora non spetta a me presentare un’analisi comparata delle due soluzioni possibili. Mi limito però a considerare il fallimento di quella perseguita finora e a sottolineare come l’alternativa non sia mai stata presa seriamente in considerazione. Eppure una normalizzazione dall’interno, affidata all’organizzazione delle varie componenti della società civile e della politica, potrebbe trovare uno spazio di manovra più ampio in uno scenario che contempli un solo Stato. Si pensi ad esempio al coinvolgimento dei partiti arabi. Non è un mistero che l’attuale guerra abbia impedito loro di entrare a far parte per la prima volta del governo del Paese. E a nessuno sfugge la crescente influenza di un’intera generazione di arabi israeliani (ormai il 20% della popolazione) che hanno accettato di diventare cittadini dello Stato ebraico, imparando la lingua, studiando e divenendo parte integrante della società civile. Gli scontri nelle città miste sono del resto la vera novità dell’ultimo conflitto.

Non vanno poi dimenticati i tentativi di Hamas di imporsi a colpi di razzi come punto di riferimento di tutti gli arabi di Palestina e pur non raccogliendo il consenso sperato fuori da Gaza, continua ad insidiare la debole leadership di Abu Mazen e dell’OLP. La soluzione di uno Stato non toglierebbe forza e argomenti alla leadership della Striscia?

C’è poi un ultima considerazione: migliaia di Cristiani convivono da anni con le dinamiche di scontro tra israeliani e palestinesi, e pur non essendo un attore primario del conflitto (anzi proprio per questo) sarebbero una risorsa decisiva su cui puntare per un processo di distensione. D’altronde in quei luoghi vivono da sempre e continueranno ad essere una presenza a prescindere dalla soluzione politica che si deciderà di perseguire in futuro.
Perché non iniziare da qui?

on. Alessandra Ermellino

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