Il termine ecologia è oggi usato frequentemente sia nei rapporti interpersonali sia attraverso i mass-media. Etimologicamente proviene dal greco oikos – abitazione e logos – discorso, quindi “discorso sull’abitazione”. Ma di quale abitazione si tratta? Dell’abitazione in cui vive l’uomo, cioè l’ambiente naturale e di conseguenza semanticamente l’ecologia è “la scienza che ha per oggetto lo studio di relazione tra l’uomo, gli organismi vegetali e animali e l’ambiente in cui vivono.”
Soprattutto negli ultimi secoli la relazione tra l’uomo e la natura ha assunto caratteri di problematicità. Per quale motivo? Bisogna partire dalla storia dell’umanità.
Nell’età Paleolitica, quando la nostra specie praticava la caccia e la raccolta, i nostri effetti sul pianeta erano assai limitati, non minacciavano le altre specie e ancor meno interi ecosistemi.
L’addomesticamento degli animali e l’agricoltura, che si fanno risalire a circa ottomila anni fa, segnarono una svolta, che cominciava a porre l’uomo al di fuori degli equilibri naturali. Iniziò allora la distruzione delle foreste con il fuoco per conquistare pascoli e terre da coltivare. L’uomo del Paleolitico, essendo il suo territorio di azione ristretto e le sue capacità di trasformazione delle materie prime abbastanza limitate, era un raccoglitore di risorse locali in condizioni abbastanza equilibrate; ma con il tempo lo sviluppo tecnologico consentì all’uomo di utilizzare risorse provenienti da aree sempre più lontane dal luogo in cui viveva; basti ricordare i famosi cedri del Libano il cui legname nell’antichità veniva apprezzato e utilizzato in tutto il Mediterraneo.
L’uomo cominciò a sentirsi svincolato dal territorio e dagli equilibri ecologici in cui aveva vissuto, e ancor più dal concetto di limite e di autoregolazione; con strumenti sempre più potenti, messi a disposizione dallo sviluppo della scienza e delle tecnologie, si trasformava sempre più da fruitore a conquistatore dell’ambiente.
I grandi navigatori, con la scoperta di nuovi mondi da colonizzare, aprirono la strada a nuovi serbatoi di risorse, dando inizio ad uno sfruttamento di essi a tutto beneficio dei Paesi “scopritori di essi”. Gli stessi abitanti delle “terre scoperte” erano considerati spesso una risorsa da sfruttare perché contribuissero come mano d’opera a bassissimo costo all’arricchimento dei Paesi “scopritori” e alla distruzione delle risorse naturali dei loro Paesi d’origine.
Nonostante lo sfruttamento delle risorse della terra divenisse nei secoli sempre più elevato, è soprattutto negli ultimi 200 anni, con l’affermarsi della Rivoluzione industriale, che l’impatto delle attività umane sugli equilibri dinamici della vita ha raggiunto un tale livello da mettere in discussione l’abitabilità stessa del pianeta e quindi da farci preoccupare seriamente per il nostro futuro.
Eventi di eccezionale gravità quali la fuoriuscita di una nube tossica di diossina da un’industria chimica a Seveso nel 1976 e l’esplosione delle centrali nucleari di Bopal nel 1984 e di Chernobyl nel 1986 hanno fatto sentire la necessità inderogabile di far fronte alla questione ambientale come ad uno dei massimi problemi etico-politici concernenti l’esistenza e la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra.
Sul piano internazionale si è assistito a un infittirsi di attività e di iniziative tra le quali è da ricordare il rapporto Bruntland del 1987, redatto dalla commissione mondiale istituita sulla base di una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU.
Centrato sul nesso cruciale tra “ambiente” e “sviluppo” il rapporto Bruntland ha introdotto il concetto di sviluppo sostenibile al fine della conservazione e tutela dell’ambiente: lo sviluppo sostenibile è “quel modello di sviluppo che soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
A difesa dell’ambiente si sollevò anche la voce di Papa Giovanni Paolo II, che nell’enciclica “Centesimus annus” si fece portatore dei problemi relativi alla qualità dell’ambiente e della vita in generale, attribuendo al capitalismo selvaggio, fondato sul consumismo e sulla distruzione dei valori cristiani e al desiderio di “avere” più che di “essere”, grandi responsabilità circa il degrado ambientale e la distruzione delle risorse.
E si arriva alla conferenza su ambiente e sviluppo che si svolse Rio De Janeiro nel 1992, a cui parteciparono ben183 Paesi e che espresse la consapevolezza del problema ambientale e della necessità, per rispondervi, di una collaborazione di tutti i Paesi del mondo.
In occasione del Summit della Terra di Rio De Janeiro fu presentata la Carta della Terra, la cui versione ufficiale è del 2000. I principi generali affermati dalla Carta sono funzionali allo sviluppo sostenibile.
Questo significa: rispettare e prendersi cura della vita, in tutte le sue forme; proteggere i sistemi ecologici naturali dell’ambiente; promuovere la giustizia economica e sociale basata sulla solidarietà; rafforzare le istituzioni democratiche attraverso una cultura di non violenza e di pace.
Com’è evidente, la difesa dell’ambiente naturale e della vita non è considerato un valore a sé stante, ma è connessa alla giustizia socio – economica e alla promozione della solidarietà e della pace.
La Carta della Terra è attraversata da echi dell’etica della responsabilità di Hans Jonas.
E qui è d’obbligo esaminare il testo “Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica” di Jonas del 1979, che è uno dei tentativi più significativi di affrontare in filosofia la questione ambientale.
Jonas parte dall’analisi della natura dell’agire umano che nella società tecnologica è cambiato rispetto al passato; ciò esige un mutamento anche nell’etica.
Nel mondo precedente l’esplosione tecnologica dei nostri tempi la natura era considerata come una realtà fissa e immutabile: essa era scarsamente manipolabile in quanto non era alla portata della mano dell’uomo. L’azione umana non si spingeva oltre la nicchia urbana, cioè la sfera sociale. Anche la più alta energia distruttiva, la guerra, non metteva mai seriamente in discussione l’equilibrio naturale. Gli interventi sulla natura erano, infatti, irrilevanti in quanto circoscritti nello spazio e di modesta entità tecnica; l’ambiente fisico riusciva comunque a rigenerarsi facilmente. Lo spazio dell’intervento umano era essenzialmente quello rappresentato dalla politica.
Conseguentemente l’etica tradizionale prendeva in considerazione soltanto i rapporti tra gli uomini, in genere appartenenti alla stessa cerchia urbana. Il bene e il male dell’agire umano erano verificabili quasi immediatamente in quanto ogni azione interferiva con gli interessi dei soggetti presenti “qui e ora”.
Nella civiltà tecnologica l’uomo ha posto fine alla natura, non solo attraverso il suo insensato sfruttamento, ma soprattutto con la straordinaria possibilità di indurre in essa mutazioni radicali. Non è più la natura a minacciare l’uomo, ma è l’uomo con l’enorme potere che la tecnica gli conferisce a minacciare la natura.
La natura è vulnerabile davanti all’intervento tecnico dell’uomo e pertanto bisogna porsi nei suoi confronti in modo nuovo. “La natura come responsabilità umana” è una novità e la responsabilità è enorme, visto che l’agire umano al tempo della tecnica ha assunto dimensioni cosmiche. Infatti il raggio del nostro agire, sia a livello temporale che a livello spaziale, si è ampliato al punto da sfondare l’universo morale tradizionale. Per quanto diversi dal punto di vista dei contenuti, gli imperativi dell’etica tradizionale erano orientati al ristretto cerchio della contemporaneità e della reciprocità.
“In tutti questi imperativi, l’agente e l’altro rispetto al suo agire partecipano di un presente comune. L’universo morale consiste di contemporanei. Le cose stanno analogamente per quanto riguarda l’orizzonte spaziale del luogo in cui l’agente e l’altro si incontrano in tutti i ruoli nei quali hanno a che fare reciprocamente”.
Nella società tecnologica tutto è decisamente cambiato, dal momento che “con quello che facciamo qui e ora e per lo più con lo sguardo rivolto a noi stessi, influenziamo in modo massiccio la vita di milioni di uomini di altri luoghi e ancora a venire, che nella questione non hanno alcuna voce in capitolo”.
Stando così le cose, non basta più richiamarsi alle regole della tradizionale etica della coscienza e dell’intenzione: basarsi cioè, nell’agire, sulle proprie convinzioni, senza curarsi delle conseguenze che le azioni possono avere sugli altri o sulla natura fisica. Le massime dell’etica dell’intenzione (fiat justitia, pereat mundus) possono valere ancora per il ristretto ambito del rapporto tra gli individui, ad esempio “ama il prossimo tuo come te stesso”, ”non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.
Secondo Jonas occorre integrare quelle norme con un’altra visione, quella dell’etica della responsabilità (fiat justitia ne pereat mundus). Non basta essere a posto con la propria coscienza, bisogna anche prevedere quali influssi le nostre azioni attuali potranno avere sul futuro dell’umanità e del pianeta, ad esempio ponendoci la domanda: “Se continuiamo a consumare energia e a inquinare il pianeta con gli attuali ritmi, che destino riserveremo ai nostri figli e nipoti?”.
Secondo Jonas, un imperativo adeguato al nuovo agire umano potrebbe essere il seguente: “Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana”, oppure, tradotto in negativo: ”Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione non distruggano la possibilità futura di una vita autenticamente umana” o anche, più semplicemente: “Non compromettere le condizioni di una permanenza illimitata dell’umanità sulla Terra” oppure, più in generale: “Nelle tua scelte attuali, includi la futura integrità dell’uomo fra gli oggetti della tua volontà”.
Come si vede, in queste massime Jonas identifica dei nuovi soggetti di diritto che in qualche modo bisogna prendere in considerazione e che limitano la nostra azione; essi sono l’ambiente fisico e gli uomini del futuro.
In breve tutto quello che si può fare dal punto di vista tecnologico, non è scontato che si possa fare secondo il principio di responsabilità, ragion per cui anche se piantiamo un chiodo nel muro, paradossalmente dovremmo chiederci che impatto la nostra azione ha sull’ambiente naturale e sulle generazioni future.
A maggior ragione il principio di responsabilità vale quando si fanno progetti “megagalattici”; ad esempio la proposta di un megadepuratore sul lago di Garda e in Costiera amalfitana, autentiche perle dal punto di vista paesaggistico, deve cadere nel vuoto perché minaccia l’ambiente naturale e quindi anche la vita dei nostri nipoti e pronipoti.
Non a caso l’enciclica di Papa Francesco “Laudato si’ “ indicando la crisi ecologica come la conseguenza dello sfruttamento incontrollato e sconsiderato della natura da parte dell’uomo, propone il concetto di ecologia integrale, cioè basata sulla consapevolezza dell’interconnessione tra crisi ambientale della Terra e crisi sociale dell’Umanità.
In definitiva l’uomo contemporaneo non deve sentirsi svincolato dal concetto di limite che è, ce lo insegnano filosofi e teologi, l’essenza stessa della natura umana.
Antonietta Rubiconto