L’ambizione di dar vita, oggi, ad un soggetto politico di ispirazione cristiana deve muovere dalla coscienza del fatto che non siamo più – come succedeva a Don Sturzo ed, in buona misura, alla stessa DC – in una fase storica di “cristianità”, ma siamo piuttosto approdati alla cosiddetta “società post-secolare”.

Abbiamo attraversato la stagione della “secolarizzazione” che supponeva, illuministicamente, di giungere al superamento ed alla scomparsa del sentimento religioso, relegato alla dimensione del mito e dell’irrazionale.

Senonché, tale previsione è stata sonoramente smentita dai fatti.

Anzi – osserva Habermas, ritenuto il maggior filosofo vivente – c’è un ritorno di interesse per la religione, anche da parte di non credenti e di ambienti “laici” che le riconoscono, in ogni caso, la capacità di mantenere vive categorie di giudizio e valori che non si rintracciano più altrove.

A cominciare, dalla solidarietà sociale, dalla capacità di riconoscere piena dignità  anche alle vite che non hanno successo, alle vite apparentemente sciupate e prive di senso, alle vite improduttive, se giudicate secondo parametri che scambiano la comunità per un deserto di monadi ripiegate ognuna su di sé.

E’ lo stesso Habermas – campione del pensiero post-metafisico e dichiaratamente “ateo”, almeno dal punto di vista metodologico, cioè in ordine agli strumenti concettuali di rigoroso timbro razionale che intende usare per il suo lavoro filosofico – ad elaborare questa linea di pensiero, riconoscendo la piena legittimità, anzi la necessità che i credenti concorrano, con piena consapevolezza della loro fede, al discorso pubblico ed all’articolazione delle voci “plurali” che vi prendono parte.

Tra credenti e non credenti è necessario che vi sia un reciproco riconoscimento, che significa, da parte dei credenti ammettere la legittimità del pluralismo; da parte dei non credenti riconoscere che il discorso religioso ospita e custodisce riserve di senso di cui la stessa società”liberale” non può fare a meno, per quanto tali valori, secondo Habermas, vadano traslati da un impianto discorsivo fondato sulla fede, qual’è quello religioso, ad un impianto argomentativo prettamente razionale.

In ogni caso, in questa nuova cornice, ispirata ad una corrispondenza tra le due parti, cade ovviamente la pretesa, coltivata da molti ambienti laici oltranzisti, che alla fede sia addirittura negato diritto di cittadinanza, cioè la facoltà di esprimere indirizzi e criteri sul piano della vita civile, dovendosi piuttosto circoscrivere e limitarsi ad agire solo nel foro interno della coscienza personale del singolo credente, senza la pretesa di elaborare, quale comunità dei fedeli, giudizi che loro non competono, in quanto destinati alla collettività.

Ratzinger – cui sta a cuore la “complementarietà di ragione e fede” – concorda “riguardo la (reciproca) disponibilità ad apprendere e la autolimitazione da entrambe le parti”. Asserendo, altresì, come a fianco di “patologie della religione”, vadano rilevate anche quelle “patologie della ragione” che esigono come anche a quest’ultima debbano essere rammentati i propri limiti.

Ne consegue la “necessità di un rapporto correlativo tra ragione e fede, tra ragione e religione che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e devono far uso l’una dell’altra e riconoscersi reciprocamente”, aggiungendo che “questa regola di base deve essere messa in pratica nel contesto interculturale della contemporaneità”.

Risulta chiaro come in una società come la nostra – sul crinale che distingue una tarda modernità da un non ben definito tempo post-moderno, a sua volta incalzato e sospinto da eventi straordinari e del tutto imprevisti che rischiano di imprimere alla vicenda dei nostri giorni una torsione incontrollata – l’accostamento tra credenti e non credenti non è più un fatto sostanzialmente neutro, una co-abitazione obbligata, vissuta quasi con fastidio o con larvato sospetto o con reciproca supponenza degli uni nei confronti degli altri, bensì assume la fisionomia di un appuntamento cui non si può sfuggire da nessuna delle due parti, cosicché lo si deve vagliare criticamente in quanto “cifra” assegnata alla specificità del nostro tempo.

Tutto ciò ha molto a che vedere anche con l’impegno politico dei credenti e giustifica l’affermazione secondo cui – oggi, in misura largamente diversa da ieri – un soggetto di ispirazione cristiana misura la forza e la fermezza della propria identità anche e, forse, anzitutto su quel versante “extra moenia” che lo conduce ad uscire incontro alle altre culture, investendo i talenti della propria fede in un confronto appassionato con queste ultime alla ricerca di un possibile “ubi consistam” comune che dia vita alla città dell’uomo.

Peraltro, affinché questo confronto sia possibile è necessario che vi sia almeno un punto originario ed elementare, intuitivo ed irriflessivo che sia comune e valga come unità di misura che contrassegni e calibri il percorso di una riflessione condivisa, pur nella perdurante distanza delle posizioni.

Probabilmente questa – se così possiamo chiamarla – “singolarità” iniziale può essere rappresentata dalla comune disponibilità a considerare ed accogliere la vita come “dono”, ma si tratta di un percorso che richiede un’altra ed apposita riflessione su cui non è qui il caso di insistere.

Domenico Galbiati

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