Credo si possa ragionevolmente sostenere che la cosiddetta Prima Repubblica sia morta in Via Fani, il 16 marzo ‘78.
Da allora si è dipanato per oltre quindici anni un lento, tortuoso ed inesorabile declino. A suo modo, inevitabile e necessario, cioè un percorso nell’ordine delle cose, per come si ponevano allora. In quelle condizioni, si potrebbe dire, addirittura fisiologico, così come l’invecchiamento di un vivente è pur sempre dovuto e naturale, per quanto avvenga per subentranti cascate patologiche.
Lo si comprende meglio oggi ad una visione retrospettiva, eppure gli elementi di una simile lettura erano già chiaramente disponibili fin da allora. In quello stesso giorno, infatti, è giunta a maturazione, si è compiuta e, contestualmente, è venuta meno la ragione storica, ideale, civile e politica delle prime origini repubblicane ed il Paese, a cominciare dalla sua classe politica senza Moro, ha cominciato ad oscillare paurosamente attorno al proprio baricentro divelto. Senza trovare una nuova stabilizzazione attorno ad un’idea strategica, senza sviluppare la consapevolezza di un disegno storico concreto che, nella ininterrotta continuità della vicenda democratica, sapesse indicare almeno le linee essenziali di un nuovo percorso di crescita umana e sociale, di maturazione civile, di progresso, tali da ridare nerbo e vigore ad una nuova fase storica.
Quello stesso 16 marzo il Parlamento, votando la fiducia al Governo di unità nazionale, porta a compimento il disegno moroteo di progressivo allargamento delle basi democratiche dello Stato. Senonché, nel momento stesso in cui tale processo giunge al suo apice, perviene anche, secondo lo schema classico di una tragedia greca, alla sua “catastrofe”. Viene meno, infatti, nella misura in cui, essendo ormai, almeno formalmente compiuto, addirittura istituzionalmente consacrato, esigerebbe che si apra una fase nuova che ne sia la naturale derivata. Il che non accade.
E, soprattutto, viene meno colui che ne è stato non solo l’artefice, ma, si può dire, la stessa condizione di possibilità.
Il passaggio era talmente delicato sul piano interno e su quello internazionale da non poter reggere su carte, documenti, intese politiche che non fossero asseverate dall’autorevolezza morale, intellettuale, politica di un grande leader che se ne facesse personalmente garante. Cosicché, la terza fase neppure s’avvia ed implode su se stessa. Il PCI, non appena registra lo scricchiolio di qualche arretramento elettorale, sia pure in chiave locale, arretra ed abbandona il disegno coraggioso, cui pure aveva mostrato di credere.
Peraltro, il processo si interrompe anche perché, in ultima analisi, Moro e Berlinguer, pur ambedue impegnando la propria credibilità personale sui rispettivi fronti, non ne davano esattamente la stessa lettura. Berlinguer, per quanto prenda seriamente le distanze da Mosca, permane di fatto dentro l’orizzonte ideologico tardo-marxista che, secondo la logica di classe, prevede comunque l’ineluttabile avvento di un’era radicalmente nuova.
Laddove, il rigore della “questione morale” assume il compito di affermare quella presunzione di superiorità politica e morale che la classe proletaria e, in senso lato, il popolo comunista, una volta attestava nella pulsione rivoluzionaria, ormai ampiamente abortita sul piano politico, eppure ancora capace di alimentare e rivendicare un tale sentimento, a fronte e contro la molle e decadente società borghese.
Insomma, c’è da chiedersi se Berlinguer avesse davvero compreso cosa sia stata e cosa sia la Democrazia Cristiana, quale grande partito di popolo. Come non lo capirà, quindici anni dopo, Occhetto che, scomparsa la DC, appare convinto che il Paese debba di necessità cadere, come una pera matura, ai piedi della sua “macchina da guerra”, talmente convinta di avere già in mano il bandolo della matassa, da essere allegramente “gioiosa”.
Senonché, quando il poverino si accorge che, senza il grande argine democratico e popolare della Democrazia Cristiana, nel Paese prorompe una destra illiberale ed, a tratti, perfino minacciosa, è troppo tardi, cosicché, voltosi indietro, la sorpresa lo trasforma, come la moglie di Lor, in una statua di sale, postura nella quale persiste tuttora.
Ma per tornare a monte, l’immaginazione di Berlinguer non va oltre il “compromesso storico” e, dunque, pensa il governo di unità nazionale come una pura e semplice convenzione di potere, un campo-base avanzato da cui muovere per l’ultimo tratto della scalata che culmina in vetta.
Sostanzialmente, resta impigliato nei lacci, pur allentati, della sua ideologia, mentre Moro vola alto. Moro non ha mai pensato la “terza fase” come co-abitazione di potere tra DC e Partito Comunista. Non pensa ad una tattica di consolidamento del potere declinante del suo partito. Non vuole proteggere e garantire la Democrazia Cristiana.
Se mai vuole sfidarla perché sa, come ha detto ripetutamente, che la DC per essere sé stessa, ha bisogno di essere alternativa a sé stessa.
Vuole, soprattutto, che il suo partito sia al servizio del Paese, non solo della parte di elettorato che rappresenta, sappia, cioé, condurre in porto il compito storico che la “ratio” degli eventi e la cifra dei valori in gioco gli consegna: realizzare nel Paese, attraverso un processo di reciproca legittimazione delle due grandi forze popolari, le condizioni di una democrazia finalmente compiuta.
Condizione essenziale per quel margine più ampio di autonomia che, nel rispetto delle alleanze internazionali, ne garantisca una maggiore autorevolezza. Moro sa che, solo a quel punto, liberata da quel vincolo di governo che ne ha fortemente condizionato la fisionomia, la DC potrà effettivamente avviare quel percorso auspicata di effettiva riscoperta dell’ originario impianto valoriale, proprio del movimento cattolico-democratico. Non assume schemi astratti di una ideologia da cui dedurre meccanicamente, secondo le cadenze di una dottrina ossificata, soluzioni che non rispettano la vitalità di tutto ciò che matura nella realtà pulsante di un mondo in perenne evoluzione.
Prende le mosse, piuttosto, da quei dati di realtà da comprendere ascoltando, da anticipare, se possibile, quando ancora si annunciano e si configurano come semplici “segni del tempo” e muovendo induttivamente da lì, rispettando rigorosamente criteri, principi, istanze e risorse della sua intatta ispirazione cristiana, via via tende a costruire risposte storicamente proporzionate ed efficaci.
Non è un decisionista che si ammanta del falso e pacchiano fulgore dell’uomo del destino, perché sa che una decisione vale, anzitutto, per il consenso che sa promuovere e, quindi, per la condivisione attiva del cittadino, alla determinazione assunta che è in grado di suscitare. Ragiona secondo la logica, allora abbastanza inusuale, oggi modernissima di quei “sistemi aperti” che anziché imprigionare il vissuto sociale nelle maglie preordinate del loro abito mentale, sanno imparare umilmente dall’esperienza.
Non gli sarà dato il tempo di completare un disegno ambizioso per il Paese, prima che per la sua parte politica.
La morte di Aldo Moro è effettivamente un mistero, non nel senso banale, ma profondo e proprio del termine.
Cioè un evento che ha un significato che non si esaurisce nella ricostruzione del fatto in sé, nell’esame, più o meno compiuto, dei ruoli e delle responsabilità penali e politiche degli attori materiali o morali, reali o presunti, personali o collettivi che vi hanno concorso.
Vi si scorge un profilo simbolico e soprattutto un versante che va oltre la nostra ordinaria facoltà di comprensione che analizza i fatti nella cornice ristretta delle contingenze politiche in cui accadono e tutt’al più li riconduce alle radici ideologiche di chi tali fatti determina.
Ad Aldo Moro è chiesto il sacrificio della vita; e ciò esattamente sul campo su cui è necessario insistere per condurre in porto il compito che gli è stato chiesto e che gli compete. In definitiva e senza retorica, in Aldo Moro appare vero, perché diventa esperienza vissuta, come la politica sia, possa essere compresa come la più alta forma di carità.
A quel punto – e qui sta la ricchezza sorprendente del mistero – perfino la politica attinge a falde profonde della storia e dei processi che la attraversano e la determinano che sfuggono al nostro sguardo di superficie, eppure evocano una dimensione che riverbera un’eco che spetta anche a noi faticosamente intercettare.
Domenico Galbiati