Una parola chiara merita di essere detta anche in ordine al rapporto che può o meno intercorrere tra due modalità di impegno dei credenti – formazione delle coscienze versus impegno politico diretto – le quali, per quanto siano, almeno a mio avviso, complementari e reciprocamente necessarie, vengono da taluni poste in termini avversativi. Talché parrebbe che l’una debba escludere l’altra.

Talvolta la “formazione” o, in altri termini, la “scelta religiosa”, l’opera di discernimento dei valori e di approfondimento culturale ed etico, insomma tutto ciò che attiene l’arricchimento personale di ognuno, soprattutto di carattere spirituale, sembra essere concepita come se necessariamente dovesse fare pendant con un deprezzamento implicito dell’impegno militante in un partito politico. Tale atteggiamento permane nel solco di una considerazione amara della politica o meglio dell’impegno partitico, come se questo dovesse ritenersi irrevocabilmente consegnato ad una deriva involutiva e scivolosa, di cui in nessun modo si possa invertire il corso.

Anzi, come se fosse, di per sé, espressione di una brama di potere o di una abnorme, illusoria ed inquieta, perfino arrogante pretesa di manipolare le cose e gli  eventi che nulla ha a che vedere con l’olimpica serenità della riflessione, talora con  il disincanto, il severo e pensoso distacco, fors’anche l’aristocratica superiorità degli studi che si sottrae e si contrapporre ai furboni della politica che trattano e mercanteggiano. Come se fossimo di fronte a due fronti separati da uno iato addirittura di carattere morale.

Senonché, tale atteggiamento rischia, sicuramente In buona fede, di essere tributario della vecchia politica, delle incrostazioni che via via ne hanno reso dispnoico e sofferto il respiro. Bisogna stare attenti, anzitutto, a non calciare il pallone nelle propria rete, in un clamoroso autogol.

Basta un certo “clericalismo” laicista ad avanzare la pretesa che i credenti se ne stiano da parte, coltivino pure, nell’interiorità della loro coscienza e nei loro studi, i valori in cui dicono di credere In virtù di una fede religiosa che, ad avviso di costoro, li elegge a cittadini di una città “altra” e, dunque, li rende inattendibili a quella terrena.

In effetti, se l’esercizio attivo di un ruolo politico ha bisogno di una costante attenzione ad una coscienza formata alla rettitudine, non è meno vero che, a sua volta, l’impegno formativo ha bisogno di approdare e sperimentare l’assunzione sul campo di una concreta e pressante responsabilità operativa. Infatti, in  tutto ciò che attiene la “polis” e la sua vita, sempre più ricca ed imprevedibile, oltre ogni schema pre-ordinato in cui farebbe comodo costringerla, la formazione, se per tale intendiamo la maturazione dell’ attitudine a comprendere, giudicare ed agire, non può fare a meno della sperimentata capacità di stare in trincea.

Se assumiamo che la “formazione delle coscienze” rappresenti un dovere cui nessuno – tanto meno chi intenda farsi carico di una presenza attiva, in qualunque forma ciò avvenga, nel contesto civile – deve rinunciare, il fatto che ciò preluda, per chi lo ritiene, ad un impegno politico in prima persona, non è forse un arricchimento dello stesso percorso formativo?

Oppure ci sono ragioni per cui dovremmo, piuttosto, considerarlo un tradimento o almeno la dispersione di una ricchezza maturata interiormente?

Penso vada considerato un carattere dell’impegno politico, soprattutto laddove si esprima in termini di militanza politica.  Implica la disponibilità – e l’umiltà necessaria a tal fine – a mettere in comune con altri, senza badare a gerarchie sociali, culturali o d’altro genere, Il proprio pensiero, fino a custodirne il merito, eppure relativizzandone il rilievo, abbandonando quel tanto di autoreferenzialità che sempre accompagna  le nostre personali convinzioni, per farsi parte di una più vasta comunità di pensiero e d’azione.

Il fascino della politica, se correttamente intesa, è dovuto anche alla sua natura intrinsecamente popolare e democratica, per cui succede spesso come non vi sia sussiego intellettuale che tenga a fronte della nuda esperienza che anche alla persona più umile assicura un criterio di giudizio sicuro, che regge alla prova della più sofisticate teorie politologiche.

Del resto, l’attività politica richiede – e so che può sembrare una esagerazione – una certa ascesi, cioè la capacità di vigilare sull’uso di quello strumento affilato che è la propria ragione.

Quest’ultima è inevitabilmente intrecciata ad una vissuto emotivo che investe anche la nostra capacità critica sul piano del giudizio politico e guai se non fosse così. Eppure è necessario separare e distinguere e non è una esercizio facile, soprattutto quando lo si deve esercitare sulla frontiera di un ruolo politicamente attivo, il quale implica comportamenti, gesti ed azioni che non restano confinati in un orizzonte circoscritto, ma possono pesantemente ricadere sulla vita della collettività intera.

Siamo sicuri che non ci siano molte ragioni per guardare con meno sufficienza, senza quel sottile fumo quasi di spregio, anzi con rispetto alla scelta di chi ha deciso, per usare una nota ed abusata espressione, di “scendere in campo”?

Domenico Galbiati

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