1. Priorità per la giustizia civile… – 2. …ma due gesti significativi per non trascurare il penale. – 3. La prescrizione e l’inaspettata unanimità su una prudente road map. – 4. Prescrizione e principio di ragionevole durata del processo, al di fuori degli unilateralismi. – 5. Gli apporti dell’Europa … – 6. …e la scommessa sulla possibilità di lavorare sulla macchina giudiziaria e sulle regole processuali, non solo per togliere peso al problema della prescrizione. – 7. Due sicurezze sulla sensibilità e sulle convinzioni della ministra: carcere… – 8. …e giustizia riparativa.

 

  1. Sveltire la giustizia: anzitutto quella civile, anche perché ce lo chiede l’Europa. E stavolta non è il solito mantra, non di rado abusato e talora ingannevole: la Commissione di Bruxelles si è spinta sino a porre il tema tra quelli condizionanti da parte dell’Italia, al fondo Next generation EU.

Da tempo, del resto, e non solo in quelle stanze, ci si preoccupa degli astronomici tempi di durata delle controversie giudiziarie instaurate nel nostro Paese, il che rende sovente inutile, per la parte vittoriosa, lo stesso esito finale del processo: ne resta sfiduciata la gente comune, anche per l’entità di spese che si accumulano finché pende la lite mentre non riesce facile neppure ottenere, una volta chiusa la causa, la tempestiva e adeguata soddisfazione in sede esecutiva. Tutte cose che tra l’altro possono incoraggiare imprese piratesche di avventurieri di ogni specie (e le mani dei sodalizi di tipo mafiosi più o meno d.o.c. sono già dappertutto…) sconsigliando invece imprenditori e investitori onesti, interni ed esteri, dall’intraprendere o finanziare in Italia attività produttive; donde l’aggiunta di un ennesimo e potente fattore dissuasivo ai tanti che già agiscono al riguardo.

Si dirà, e non a torto, che negli ultimi anni dei passi avanti sono pur stati fatti per velocizzare la giustizia civile e renderla più credibile, anche attraverso i progressi nella digitalizzazione del sistema. Sembra tuttavia evidente che non bastino. Dunque, attenzione particolare alla giustizia civile e impegno non procrastinabile per solleciti interventi che non si limitino a ritocchi normativi all’interno dei riti processuali vigenti: ancor più necessarie, anzi, sono forse misure idonee a favorire adeguati percorsi alternativi alla causa davanti al giudice, senza però affidarsi eccessivamente agli arbitrati, i cui costi economici, per chi vi ricorre, sono sopportabili unicamente da quanti – persone fisiche o enti – possiedono ingenti patrimoni.

  1. Ma allora – viene spontaneo domandarsi – se prioritario ha da essere l’impegno in quel settore, deve perciò passare in seconda linea la giustizia penale? Il silenzio mantenuto in proposito dal premier Draghi nel presentarsi al Senato per la fiducia poteva forse lasciare l’impressione di una tacita risposta positiva all’interrogativo. Nel successivo dibattito alla Camera dei deputati è stato però lo stesso Presidente del Consiglio a smentirla, dedicando all’argomento un cenno non fugace nel suo pur breve discorso di replica.

Una smentita di più forte impatto è poi subito venuta da due iniziative della neoministra Marta Cartabia, non appena entrata nella pienezza delle sue funzioni: una, di chiaro e alto significato simbolico, con l’immediata presa di contatto con Mauro Palma, garante nazionale dei diritti dei detenuti; un’altra, riguardante il tema della prescrizione penale, direttamente produttiva di un risultato pratico, sul piano dei rapporti tra Parlamento e Governo parlamentare. Ambedue, dunque, atti posti in essere da una delle componenti di maggiore prestigio “tecnico” della squadra di Draghi che tuttavia – com’è stato da molti osservato – palesano altresì una rilevante (e forse inaspettata) valenza politica: si può aggiungere, non meno per il metodo che per il merito dei problemi cui ineriscono.

  1. Prendiamo quello sulla prescrizione, tema da tempo tra i più divisivi per le forze politiche, ma anche per l’opinione pubblica, specialmente da quando la “riforma Bonafede” ha bloccato il corso della prescrizione medesima in coincidenza con la pronuncia della sentenza di primo grado.

Per lo più, i commentatori hanno in questi giorni sottolineato soprattutto il “miracolo” della rapida unanimità ottenuta da Cartabia presso i rappresentanti dei gruppi di maggioranza sulla sua proposta di una pausa di riflessione in argomento, sino alla sottoscrizione, da parte di tutti, di un testo formulato dalla ministra stessa e destinato a trasfondersi in un ordine del giorno in vista di un imminente dibattito parlamentare, con il contestuale ritiro di emendamenti di diverso segno.

Non è questa la sede per entrare nei dettagli della sorta di road map che ne risulta così prospettata è di tentare un’esegesi di ogni singola parola che compare nella bozza, così come filtrata dai giornali. Alcuni particolari – e li scelgo apposta tra quelli maggiormente lasciati in ombra nei commenti che mi è capitato di leggere – mi sembrano soprattutto significativi, sperando, se vedo giusto al riguardo, che non siano lasciati cadere.

  1. Il primo può trarsi da un raffronto tra ciò che, ad esempio nel “pezzo” di Liana Milella su “La Repubblica” la quale per prima ha dato la notizia, si legge e ciò che non vi si legge a proposito del principio della “ragionevole durata del processo”.

Certo, tale principio, che dall’ultimo anno del secolo scorso ha trovato riconoscimento anche nel testo della Costituzione, all’articolo 111, non è affatto dimenticato, e ci mancherebbe altro, essendo non meno importante (anzi …) nel settore penale che in quello civile: lo si trova infatti posto alla radice di una promessa d’impegno “ad adottare le necessarie iniziative di modifica normativa e le opportune misure organizzative volte a migliorare l’efficacia e l’efficienza della giustizia penale”, così da “assicurare la capacità dello Stato di accertare fatti e responsabilità penali in tempi ragionevoli”.

Non vi sono invece segnali di come la ministra possa svincolarsi dalla morsa dei due unilateralismi che hanno sin qui dominato il dibattito, tra i partiti e sui media, deformando la descrizione e la comprensione delle fisiologiche interrelazioni tra quel principio e la disciplina della prescrizione: unilaterale, indubbiamente, la prospettiva che ha prodotto la riforma Bonafede, la quale, nell’ansia di non dar tregua ad eccessi ed abusi di garanzia, ha finito col dar corpo all’incubo di processi che non finiscono mai; ma unilaterale anche lo stracciarsi le vesti di molti dei suoi detrattori, che nell’erigere il diritto alla prescrizione addirittura a principale colonna portante del suddetto principio,  mettono sì giustamente in rilievo che lo spauracchio di un’incombente prescrizione può indurre per reazione il magistrato pigro a non… addormentarsi e ancor più può distogliere il magistrato con smanie di protagonismo dall’avventurarsi in indagini senza sbocco con spreco di tempo e di risorse, ma sorvolano poi sul fatto che l’approssimarsi della scadenza prescrizionale può anche sollecitare – come talvolta ha pur sollecitato di fatto – diversivi difensivi idonei a far raggiungere artificiosamente il… guadagno della conseguente estinzione del reato e dunque dell’impunità anche del colpevole schiacciato da prove irrefutabili.

  1. L’astenersi dal seguire l’uno o l’altro dei due unilateralismi non significa necessariamente volontà di eludere un problema ma può invece essere indice di uno sforzo di autentico equilibrio. E a poterla caratterizzare in tal senso potrebbe essere un altro particolare che mi piace segnalare. È l’attenzione alle realtà europee, nella specie essendo più che mai da escludere che qui i riferimenti in proposito siano di natura puramente retorica.

Parla in proposito il passato, più meno recente, della giurista Cartabia, autorevole studiosa della comparazione giuridica transnazionale, dei diritti dell’uomo e del diritto della UE; e poi apprezzatissima giudice e presidente di una Corte costituzionale sempre più proiettata nel dialogo con altre omologhe ma soprattutto con quelle che siedono a Strasburgo e al Lussemburgo quali massime espressione giurisdizionali, rispettivamente, del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea. Da un lato si può dunque essere sicuri che gli opportuni confronti con normative straniere sarà fatto, più che in passato, in modo rigoroso e non al solo scopo di trovare appoggi per trapiantare soluzioni di comodo. D’altro canto, non sono pochi gli insegnamenti che soprattutto dalla Corte europea dei diritti umani (ormai più che cinquantennale anche con riferimento al principio della durata ragionevole dei processi) vengono  in favore di quel serio bilanciamento di princìpi e di esigenze che lo stesso ordine del giorno più volte ricordato individua come obiettivo da mettere a punto e da realizzare: con inesorabili censure contro le lungaggini (anche italiane) irridenti verso il diritto delle parti (e in particolare dell’imputato) di non sottostare a processi di durata irragionevole, ma con censure anche più severe – e pure di queste alcune sono state pronunciate nei confronti dell’Italia – per l’impunità talora assicurata, mediante la prescrizione, ai responsabili di reati gravi o gravissimi.

  1. Anche per non dare l’impressione di un ingenuo adulatorio ottimismo, non si può nascondere che, nei propositi manifestati nella prima uscita pubblica di Marta Cartabia quale titolare del dicastero di via Arenula, ci sia anche una certa dose di scommessa sulla possibilità che questo Governo possa trovare poi davvero continuativamente – oltre alla capacità intrinseca – il sostegno e i tempi necessari per giungere a rendere davvero operante lo snellimento della macchina giudiziaria e delle regole processuali che, indispensabile di per sé, toglierebbe anche al problema della prescrizione quel peso esorbitante che è venuto in Italia ad avere, contribuendo assai a generare sfiducia globale nella serietà della giustizia.

Il volgere verso la fine naturale della legislatura, e più ancora il timore che, finito il semestre bianco, si rompano i fili che hanno consentito il varo dell’attuale esecutivo, mettono in forse ogni certezza circa il conseguimento di un risultato soddisfacente sul piano operativo. Del resto, che la strada sia ricca di insidie si è potuto capire subito, o meglio quando, pochissimi giorni dopo l’incontro descritto, il gruppo di Fratelli d’Italia – avvalendosi della sua collocazione all’opposizione ma con persistenti legami con forze della maggioranza – è già riuscito a inserire un piccolo cuneo in quell’unanimità, facendo proprio uno degli emendamenti ritirati dai proponenti e provocando sul punto una divisione tra le varie componenti dello schieramento governativo.

Né può dimenticarsi, inoltre, che nel settore penale, ben più che nel civile, la velocizzazione processuale incontra oggettivamente difficoltà non trascurabili: se non altro perché certe innovazioni tecnologhe, se possono essere utili senza effettivi problemi (se non di un congruo rodaggio specialmente per gli operatori anziani) quanto al modo di provvedere ai depositi degli atti e alle notificazioni, non possono essere invece spinte oltre certi limiti se si vogliono salvaguardare il contraddittorio e l’oralità nella formazione delle prove, cardini di un “processo penale giusto”. Lo si sta constatando anche in questi tempi di emergenza globale, con la pandemia che ha costretto a dilatare al massimo le udienze “da remoto”.

In ogni caso non è mai opportuno perdere la fiducia a priori. E qui essa sembra davvero ben riposta, perché si gettino quantomeno solide basi per futuri interventi di un certo tipo e se ne scongiurino altri.

  1. Poche parole circa il gesto che per altro verso ha quasi contemporaneamente contrassegnato l’avvio dell’esperienza ministeriale di Marta Cartabia e che si potrebbe commentare da solo. Simbolico, si è detto, e altamente significativo.

Il tema dell’esecuzione delle pene, e del carcere in particolare, non è meno divisivo dell’altro. Ben più scottante soprattutto per chi vi è coinvolto come destinatario di una pena o perché quell’esecuzione costituisce oggetto del proprio lavoro, vede peraltro le faglie divisorie non del tutto coincidenti con quelle che si scorgono sul versante di cui ci si è occupati più sopra.

Qui ci sono alcuni motivi specialissimi, tratti dal curriculum della ministra, per cogliere in quel gesto la voluta e preliminare conferma di una sensibilità, prima ancora che di convinzioni ben radicate; e sulle quali neppure le doti di equilibrio e di attitudine alla mediazione, proprie della persona, dovrebbero poter dar adito a cedimenti o a compromessi. Tanto meno in relazione a una realtà come quella carceraria italiana di oggi, intrinsecamente drammatica e ancora recentemente scossa da violenze e da morti inopinate, senza essere stata liberata dalla piaga del sovraffollamento, fonte anche di un’accentuazione dei pericoli di diffusione del contagio pandemico, non sempre fronteggiata in modo da tutelare adeguatamente i diversi aspetti di tutela della sicurezza individuale e collettiva.

Noto è l’impegno di Marta Cartabia in proposito, palesato anche dalle non oleografiche visite in carcere, sue e di altri componenti la Corte costituzionale da lei presieduta, in prosecuzione e sviluppo di un’iniziativa già avviata dal suo predecessore alla presidenza, Giorgio Lattanzi. Tra i presupposti anche delle sentenze in argomento, quello che i diritti fondamentali non possono venir meno per nessuno e in alcun luogo: neppure tra quelle mura, insomma, pur non potendosi accettare che lì o altrove dei prepotenti, mafiosi o no, se ne facciano scudo per pretendere privilegi o per instaurare o consolidare posizioni di potere e per praticare soprusi più meno sistematici. Ed è molto importante che al vertice dell’amministrazione della giustizia sieda oggi una persona che si ispiri a uno spirito opposto a quello ci chi agogna di veder “marcire in cella” questo o quell’altro, o forse più ancora questa o quella categoria di persone. Sono sue queste parole per sintetizzare il senso della sentenza che ha aperto un primo varco nel complesso meccanismo che trova al culmine il cosiddetto ergastolo ostativo: “L’effetto non è: fuori tutti, ma permettere al giudice di valutare caso per caso”.

  1. Ma non è solo per quanto fatto nell’esercizio dei suoi precedenti ruoli istituzionali che Cartabia dà garanzie di una gestione del ministero per cui il dettato dell’articolo 27 terzo comma della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) non si riduce a un insieme di nobili parole per anime belle, ma implica precise assunzioni di responsabilità: sia per rendere più umano il carcere sia per farlo diventare davvero, come dovrebbe essere, soltanto un’extrema ratio. E verosimilmente le due cose stanno insieme.

Sono approfonditi gli studi da lei promossi e coordinati, insieme al criminologo Adolfo Ceretti, sul tema della “giustizia riparativa”, da affiancare – e là dove possibile, da sostituire – alla giustizia repressiva. Ora ha la possibilità di dare un contributo anche operativo perché le “misure alternative” alla prigione trovino, con finanziamenti adeguati e impulso alla formazione di personale di supporto, l’impulso necessario.

Non sarà facile. Anche se, per certi versi, lei dovrebbe trovare nella parte della riforma penitenziaria promossa da Andrea Orlando, e poi rimasta nel cassetto, quantomeno una buona base di partenza.

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