“E’ ironico dover ammettere che in ogni altro contesto – ad esempio quello di una qualsiasi azienda quotata, il cui titolo venga mosso da notizie provenienti da personaggi senza una fonte o un’identità credibile – quanto accaduto potrebbe facilmente rappresentare una manipolazione dolosa del mercato“.
Quando a lanciare accuse simili è Michael Every di Rabobank e non un blogger d’assalto, significa che davvero il punto di non ritorno per la narrativa ufficiale sul conflitto commerciale fra Usa e Cina è stato raggiunto. E, forse, superato. L’attacco del capo analista del gruppo finanziario olandese, infatti, è di quelli senza appello.
E’ indirizzato verso un soggetto decisamente di primo piano come Bloomberg, rea il 4 dicembre scorso di aver reso possibile con un proprio lancio di agenzia che, dopo tre sedute consecutive di calo a causa del brusco raffreddamento dei rapporti fra Washington e Pechino in materia di dazi, tornasse il sereno nel mondo dei futures a Wall Street.
“Nonostante la retorica bellicista, un accordo sarebbe ancora possibile”. La fonte? Ignota, totalmente. Ma sufficiente, in un mondo newsdriven e prono a reazioni pavloviane degli algoritmi, a far scordare il segno meno alla Borsa statunitense.
Insomma, ormai il fatto che i continui stop-and-go nelle trattative commerciali siano divenuti la versione 2.0 dei buyback, in fatto di sostegno eterodiretto agli indici azionari, rappresenta il più classico dei segreti di Pulcinella.
Il perché Pechino, al netto della retorica tardo-maiosta, si presti a questo gioco delle parti è spiegato in maniera spietata da questo altro grafico, contenuto nell’ultimo report di Société Générale e definito dalla stessa banca francese the most depressing chart ever: in un universo globale di oltre 16.000 titoli azionari, negli ultimi due anni il 78% di loro (oltre 12.400) non è riuscito a battere lo Standard&Poor’s 500.
Wall Street still rules, insomma. Ma c’è dell’altro a certificare un qualcosa di stonato nella narrativa bellica fra Pechino e Washington, condita con minacce più o meno dirette, tweets e veline.
Il 5 dicembre, infatti, la Banca Mondiale ha deciso di prolungare fino al 2025 il proprio programma di prestito
agevolato nei confronti proprio della Cina, riportando il massimale di concessione nel range di 1-1,5 miliardi di dollari all’anno, dopo che dai 2,4 miliardi del 2017 si era passati agli 1,3 miliardi dello scorso anno. In sé, nulla che abbia monopolizzato le prime pagine dei quotidiani o le aperture dei telegiornali. Ma, in realtà, sono parecchie le note stonate nella vicenda.
Primo, statutariamente l’organismo fondato da John Maynard Keynes e Harry Dexter White ha come missione quella di finanziare i Paesi poveri o in difficoltà, non certo le superpotenze mondiali.
Secondo, altrettanto a livello pressoché ufficiale, la Banca Mondiale è riconosciuta come diretta emanazione del governo Usa, mentre il Fondo Monetario Internazionale vede un europeo alla sua guida in una tacito bilanciamento dei poteri post-Bretton Woods. E se nel 2012 l’allora presidente Barack Obama scelse per la prima volta un asiatico come numero uno della World Bank, l’antropologo coreano Jim Yong Kim, lo scorso aprile Donald Trump pose nettamente fine all’interim di Kristalina Georgieva nomimando il falco repubblicano David Malpass, vicesegretario al Tesoro di Ronald Reagan, ex capo economista di Bear Stearns e vice-segretario di Stato con George W. Bush. Insomma, un profilo da liberista ante-litteram. Il quale, invece, ha garantito un passaggio indolore alla decisione di finanziare ancora per cinque anni la Cina con denaro formalmente destinato alla lotta contro la povertà. E non poco denaro, visto che dal 2014 ad oggi anni la media è stata di 1,8 miliardi di dollari all’anno.
Terzo, la decisione è stata violentemente contestata da quello che, di fatto, è lo sponsor principale della Banca Mondiale, ovvero il Tesoro Usa nella persona del suo numero uno, Steven Mnuchin. Il quale, parlando al Financial Services Committee della Camera, ha dichiarato che “anche un solo dollaro sarebbe troppo, se destinato a Pechino.
La Cina, infatti, utilizza quel denaro per i progetti legati alla Belt and Road Initiative e per finanziare a sua volta i Paesi africani, in quella che rappresenta una strisciante e ricattatoria opera di colonizzazione. In più, è inaccettabile che la Banca Mondiale supporti finanziariamente un Paese che vìola palesemente i diritti umani”.
Communication breakdown fra Capitol Hill e la World Bank, citando i Led Zeppelin? Oppure ennesimo gioco delle parti fra Cina e Usa, tanto per mantenere credibile agli occhi dell’opinione pubblica la narrativa dello scontro senza esclusione di colpi? Difficile dirlo. Di certo c’è che, al netto della solo formale indipendenza della Banca Mondiale dal governo Usa, appare quantomeno strano che a meno di una settimana dalla firma da parte di Donald Trump della legge bipartisan in sostegno alle proteste di Hong Kong, la più yankee delle istituzioni sovranazionali stacchi un assegno potenziale da 7,5 miliardi in cinque anni per finanziare a costi irrisori le politiche di Pechino.
Un dubbio, però, ha assalito più di un osservatore, data la contemporaneità di tre notizie provenienti proprio dalla Cina nelle stesse ore. Primo, Pechino ha letteralmente visto crollare le vendite di auto elettriche nel trimestre da luglio a ottobre, un rotondo -28%.
E questo, nonostante una campagna di sussidi statali a tappeto, al fine di rivitalizzare il comparto e soprattutto i consumi interni, pallino della politica da piano decennale di Xi Jinping per affrancarsi dall’export come driver primario dell’economia. Ad oggi, gli unici soggetti a garantire una base di mercato alle auto ecologiche sono i servizi di noleggio stile Uber o i taxisti: un po’ poco anche numericamente, come quota di mercato, per dar vita a una rivoluzione tout court negli impianti produttivi.
E se la notizia farà piangere molti marchi europei e Usa, certi di trovare proprio in Cina l’El Dorado per la rivoluzione green dell’automotive, dall’altro ha convinto il governo a ritirare la politica di incentivo. Se Pechino chiude la porta, quanto davvero porterà in dote l’industria dell’ambientalmente compatibile a livello globale e di settore?
Secondo, per la prima volta dal 2012, un’Ipo cinese è finita con un clamoroso flop. E a far riflettere è il fatto che il titolo in questione sia quello della Luoyang Jalon, azienda leader nel comparto strategico dei nano-conduttori, il cui debutto in Borsa il 4 dicembre è coinciso con un minimo intraday di -7% e una chiusura di contrattazione – dopo
l’immissione sospetta di un numero elevato di ordinativi sul finale di sessione – a meno 2%. E con il mercato globale delle Ipo che a settembre ha segnato il minimo da tre anni a questa parte, a causa soprattutto del forfait di WeWork, il quadro si fa decisamente fosco: se, al netto della valutazione preliminare, il collocamento di Aramco non seguirà il
trend record dei presupposti, l’effetto domino è tutt’altro che da escludere. Soprattutto sui comporti più sensibili all’esposizione al leverage, criterio che di colpo tornerà dirimente nelle analisi e nelle scelte degli investitori.
Infine, la terza criticità, forse la più seria e attuale. Con i 15 default su bond on-shore occorsi da inizio novembre a oggi, il numero di mancati pagamenti degli oneri sul debito emesso da parte di aziende cinesi è salito a poche unità dal record assoluto toccato lo scorso anno.
Al 3 dicembre scorso, il controvalore di quei default ha toccato quota 120,4 miliardi di yuan (17,1 miliardi di dollari), ormai a un’incollatura dai 121,9 miliardi dell’annus horribilis 2018. Certo, stiamo sempre parlando di una porzione frazionale del mercato obbligazionario on-shore cinese, un gigante da 4,4 trilioni di dollari di controvalore ma la nota stonata che comincia a far drizzare le antenne è la rapidità dell’aumento di quegli eventi di credito, tale da
essere in trend per raggiungere il proverbiale tipping point. Poi, l’effetto domino pare assicurato, stante anche la miccia del Tewoo Group già innescata in vista della deadline del 9 dicembre, quando gli obbligazionisti dovranno dare il via libera al draconiano piano di ristrutturazione del debito. A meno di un intervento diretto dello Stato, magari attraverso iniezioni più o meno mirate di liquidità da parte della Pboc, scelta che però Xi Jinping vorrebbe mantenere come ultima opzione sul tavolo.
La Cina nasconde qualcosa di più serio che il rallentamento dell’economia in atto e ormai conclamato? Sicuramente, il Re della disputa commerciale con Washington da oggi è un po’ più nudo. E questo potrebbe non essere un bel segnale.
Mauro Bottarelli
Articolo pubblicato su Businnes Insidere