La pandemia sembra esercitare i suoi effetti anche sul sistema politico e sulle singole forze. Agisce su ognuna in modo differenziato. Talvolta come una spugna; talaltra come un bisturi o meglio una sonda che raggiunge le “interiora corporis” di un partito e ne rileva aspetti, che, a pelle, non si noterebbero. La Lega, ad esempio, sembra mostrare due volti, che, se destinati effettivamente a manifestarsi come tali, potrebbero diventare inconciliabili.
Come il vecchio PCI, sembra essere partito “di lotta” per un verso e per l’altro partito “di governo”. Da una parte, il partito del sovranismo, della ruspa e dei porti chiusi; dall’altra, una forza che nei Comuni e nelle Regioni in cui governa, si è misurata con la vera dimensione dei problemi e ha imparato ad affrontarli senza chiassose esasperazioni, come pur succedeva all’inizio della sua esperienza, ma, per lo più, con realismo e moderazione, sviluppando una rete significativa di amministratori locali.
Da una parte, il partito che ha sostanzialmente in odio l’Europa; dall’altra, chi si rende conto che dall’Europa, volenti o non volenti, non si può prescindere. Da una parte, toni aggressivi, linguaggio sprezzante, pose risolute; dall’altra esponenti del partito che sanno argomentare. Pare che vi sia una divaricazione politica, almeno parziale ed incipiente, forse alimentata e sorretta addirittura da una distanza antropologica. Da una parte Matteo Salvini. Per ora, a suo fianco Giancarlo Giorgetti, che ovviamente non si smarca , ma quando accenna ad una conversione al “centro” della Lega e addirittura allude ad un possibile rapporto con il PPE, evidentemente non solo dà un segnale forte, ma addirittura ipoteca o prenota, con una intonazione da leader, una possibile evoluzione del suo partito.
Peraltro, a tutto c’è un limite e il PPE dovrebbe chiedersi dove andrebbe a parare la sua vocazione democratica e popolare, se dopo Orban, dovesse assorbire anche Salvini. Tra la Le Pen e la Merkel c’è un abisso che non si colma con un passo e chi volesse intraprendere un tale cammino, dovrebbe sapere che si tratterebbe di una trasformazione profonda, per la quale si dovrebbe essere disponibili a pagare un prezzo. Intanto, andrebbe abbandonato il sovranismo ed abbracciata la “sovranità”.
Gli Stati nazionali sono ancora in grado di assicurare ai rispettivi popoli il pieno esercizio di quella sovranità che, come nel nostro caso, la Costituzione attribuisce loro? Se per sovranità intendiamo, in senso lato, la facoltà di sovrintendere allo sviluppo dei processi politici e sociali del proprio tempo, non è forse indispensabile un ordinamento istituzionale di livello europeo che abbia la dimensione e l’autorevolezza necessarie per un governo democratico di profili della vita collettiva che, in caso contrario, cadrebbero in mano a soggetti portatori di interessi privati e settoriali, che siano stati capaci, prima e meglio dei pubblici poteri, di strutturarsi secondo i nuovi parametri dimensionali e funzionali imposti dalla globalizzazione?
Così per quanto riguarda i migranti. Si possono avere valutazioni differenti sul piano delle politiche da adottare, purché nella consapevolezza di ciò che, oggettivamente, dovrebbe appartenere a tutti: siamo appena all’incipit di un processo di formazione di società multietniche che sembra segnalare come l’umanità si stia avvicinando ad un momento capitale del suo processo evolutivo. E non saranno certo Salvini ed i suoi amici sovranisti ad impedirlo.
Del resto, il nostro uomo probabilmente intuisce da sé che il suo momento magico è giunto al capolinea e quel sentimento di impazienza e, nel contempo, di frustrazione che si coglie in lui, sia pure sotto traccia, tanto più lo inquieta nella misura in cui sa di potersela prendere solo con sé stesso e con la sbandata del Papeete.
Un partito, peraltro, quando il consenso è rilevante, tanto più rischia di smarrirlo se non è chiaro dove possa applicare la sua forza, dandole un senso. In sostanza, c’è una differenza sostanziale tra l’essere “capo” e l’essere “leader”. Il capo comanda; il leader guida. Il capo fa incetta degli umori, dei sentimenti, delle frustrazioni, sia pure delle attese che lo circondano, ma non è affatto detto abbia capacità di leadership, cioè sappia guidare tutto ciò che fermenta e freme nel corpo del Paese verso direzioni ed obiettivi che siano storicamente sensati.
Salvini è sicuramente un capo, ma non è detto che sia un leader. L’ostilità dura e preconcetta nei confronti dei migranti e l’avversione contro l’Europa sono due direzioni di marcia che, più prima che poi, potrebbero portare la Lega, nella versione Salvini, a sbattere contro il muro di una storia indirizzata da un’altra parte.
Domenico Galbiati