Cosa facessero il sottoscritto e Danilo Bertoli, ieri l’altro, alla Link University, deve restar detto, per nostro convincimento condiviso.
Prima di tutto, perché sentiamo necessario come il pane restare con gli occhi aperti su quel versante magniloquente che è la geopolitica, i cui effetti strutturali, per la colpa delle nostre inadeguate rappresentanze politiche, noi ignoriamo quanto siano presenti nella quotidianità delle nostre vite. Nutriti a pane e sovranismo, dimentichiamo, psicologicamente forzati a farlo, che la personalità internazionale dell’Italia è garanzia di tutela, quanto meno, del benessere nostro e delle future generazioni, a patto di esercitare il ruolo di potenza economica e politica avendo a mente la nostra storia, le nostre dimensioni, l’irruzione dei riequilibri globali di tutte le variabili macroeconomiche e macrosociali.
E, poi, perché si parlava di Balcani, una regione che non a torto deve costantemente essere considerata nostra confinante geograficamente prevalente, per la presenza di tante imprese italiane in quel contesto produttivo, quindi per la presenza di italiane ed italiani, per essere una terra che si colloca tra l’est e l’ovest, per essere stata storicamente presente nella nostra storia.
Ne hanno parlato, autorevoli rappresentanti di passati governi italiani ed autorevoli rappresentanti kosovari, che non cito perché questo non è un resoconto di quell’avvenimento.
Vuole essere ed è, se possibile, una confessione politica, la prova che l’ispirazione da cui muove Politica Insieme è fortemente condivisa e potenzialmente maggioritaria, persino nelle politiche internazionali.
Tra i presenti, qualcuno aveva in tasca monete veterosovraniste, e sfrecciavano nell’aria aquile d’ogni genere: portavano legate alla zampa, come negli stadi, insegne di grande Albania, di grande Serbia, insegne di grandezza. Ma erano una minoranza. Quattro gatti corrispondenti a quei 18-20 italiani su 100 che vogliono menar le mani, che vogliono azzuffarsi coi loro omologhi guerrafondai di Francia, di Germania, d’Inghilterra.
La maggioranza, quella fra l’altro munita di quel requisito che la democrazia pretende di certificare, per esempio con le elezioni, parlo della rappresentatività e della rappresentanza, la maggioranza, dunque, era chiaramente orientata alla pace, alla pacificazione. Maggioranza, peraltro, non inconsapevole, per avere ferite aperte e doloranti nei corpi sociali di riferimento, della difficoltà stessa della narrazione e dei benefici della pace e dei suoi processi.
Resto fedele all’intenzione di non fare di quella presenza un resoconto, ma una cosa era evidente e veniva detta, con assunzione delle connesse responsabilità, che nei Balcani, tra serbi, albanesi, kosovari e tutti gli altri, dopo la guerra, gli stermini, le persecuzioni, con lo strascico di dolori perenni, un unico stendardo vittorioso poteva, può e potrà sventolare, quello della pace.
Insufficiente, si dirà. Probabilmente. Ma in quella sede i segni di pace erano incarnati. Nella solidarietà, nelle politiche della circolazione delle persone, nelle sperimentazioni di modelli di cooperazione capaci di addestrare le generazioni alla pace e al suo linguaggio.
Personalmente, mi è venuta in mente una massima della Sollecitudo rei socialis: opus solidaritatis pax!
Non so se ne fossero consapevoli, non so se fossero sotto l’influenza di una visita al Santo Padre, so per certo che tutto quanto è stato detto corrispondeva ad un passaggio di quell’enciclica, il seguente: il traguardo della pace sarà certamente raggiunto con l’attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a vivere uniti, per costruire uniti, dando e ricevendo, una società nuova ed un mondo migliore”.
Noi che abbiamo il bene della pace, che spesso sottovalutiamo, pur negli aggiustamenti che sono necessari, dovremmo almeno trarre questo insegnamento dagli amici balcanici: che la strada della pace è già tracciata nella nostra Europa e dobbiamo solo metterla in comune e salvaguardarla e fare in modo che qualche ponte non collassi e lasci dietro di sé morti e nuove distanze.
Alessandro Diotallevi