La variante “Delta” preoccupa e non è giunta l’ ora  di abbandonare la prudenza che deve guidare i nostri comportamenti. Eppure, è fors’anche il momento di riemergere dalle brume della pandemia per interrogarci seriamente su quel che è successo, sulle ragioni che vanno oltre la mera fattualità degli eventi comunque siano accaduti, sulla prospettiva che si apre, sulla “cifra” che contrassegna questa nuova stagione della vicenda umana.

Si tratta di passare dalla nebulosa percezione, da tutti affermata, che “nulla sarà più come prima”, dalla speranza o dal timore che la pandemia rappresenti uno spartiacque della storia, ad una definizione più  lucida dei versanti secondo cui di fatto si articola questa generica eppure generale impressione.

Ed è bene farlo in questa fase di chiaroscuro, prima che, superata davvero l’emergenza, il ricordo di questa devastante esperienza via via si stemperi fino a dissolversi senza lasciare traccia degli ammaestramenti  che pur dovremmo trarne. Anzitutto sul piano dell’azione  politica e dei “fondamentali” cui deve rifarsi. Il tratto comune che ha coinvolto tutti e ciascuno è stata quella che potremmo chiamare una inusitata esperienza di prossimità e di esposizione alla morte.

Un’ evenienza collettiva e personale di ognuno, più o meno marcata, ma che, in ogni caso, ha  lasciato qualche solco , messo chiaramente a tema oppure appena intuito, nell’ interiorità di ciascuno. Ci siamo scoperti vulnerabili a dispetto della scienza e resilienti grazie alla scienza. Intimoriti  dalla imponderabilità del contagio ed abbandonati a noi stessi, eppure fiduciosi nelle istituzioni più di quanto avremmo osato sperare.

Molti hanno pregato per la salute dei loro cari e tutti – anche coloro che non credono – siamo stati attraversati da un’invocazione di salvezza, almeno dalla domanda silente di poter inscrivere in un orizzonte di senso, un evento apparentemente insensato. Abbiamo fatto esperienza del “limite” intrinseco alla nostra finitudine eppure quei sentimenti di insicurezza e di impalpabile paura che già percorrevano le nostre comunità fin da prima che  irrompesse nelle nostre vite il virus, nella misura in cui hanno preso forma nel timore anch’esso indefinito, ma pur sempre più pressante e concreto della pandemia, sono risultati, in fondo, in qualche modo più razionalizzabili.

Ma un dato su tutti – se appena osserviamo attentamente, in controluce alla cultura prevalente del nostro tempo – ha dominato la scena o meglio può essere colto come il denominatore comune di una vasta gamma di reazioni che la pandemia ha scatenato. Abbiamo toccato con mano, sperimentato, al di là di ogni possibile ed illusoria presunzione, la nostra “non-autosufficienza”; al contrario, la dipendenza strutturale e non ovviabile  – per quanto siano avanzati il progresso scientifico e le sue mille ricadute tecnologiche – da un che di aleatorio eppure incombente, da un imponderabile, che sfugge al nostro controllo e ad ogni nostro potere.

La scienza ha assunto un ruolo formidabile. Ha dato dimostrazione della sua potenza, eppure ha mostrato come vi siano domande che eccedono il suo limite. Domande che non le appartengono e risposte che non le competono. Possiamo continuare a credere nel “progresso”, qualunque cosa intendiamo con  ciò, ma solo a condizione di non farne un’ideologia o un mito, avvertiti, cioè, del fatto che non sia, né possa essere lineare, costante ed illimitato.

Ed automatico, come se dovesse porsi di per se, per una intrinseca necessità della storia, senza alcuna fatica, ne responsabilità nostra. Eppure è questa coscienza del “limite”, la consapevolezza che non bastiamo a noi stessi a renderci liberi, cioè responsabili e non passivi ed inerti, come fossimo posseduti dal “fato”, rassegnati ad un destino ineluttabile che può, ad esempio, assumere le forme di una pandemia.

Da tutto ciò dovremmo dedurre  – in un certo senso, dare per dimostrato – che nessuno, né singolarmente, né in quanto a coscienza collettiva dell’umanità, può fondarsi da sé e per sé, su di sé, in una olimpica singolarità. Qui ricorre, dunque, il nodo radicale che distingue la concezione della vita come dono, segnata irrevocabilmente da una relazione originaria e costitutiva, ontologica, con un “Altro” o sia pure, per chi non crede, con un “quid”, al di là del proprio “io”, sia pure il sentimento di un che di “numinoso” che vive nella natura, dalla concezione della vita come geloso ed esclusivo, autoreferenziale possesso. Una vita che nasce da sé e per sé, frutto di una mera casualità, rattrappita in un orizzonte circoscritto e chiuso, cosicché non debba niente a nessuno, se non rispondere di sé a sé stessa.

Quello che abbiamo vissuto nell’anno e più del contagio depone – quasi sperimentalmente – a favore della prima ipotesi, contro un’idea “padronale” della vita, necessariamente confinata nel ghetto di un individualismo esasperato, alienata da una solitudine amara. Che esita spesso in una rivendicazione, talvolta irata e rabbiosa, di una “autodeterminazione” che non esaurisce la sostanza e le forme della nostra libertà ed, anzi, rischia di rovesciare le ragioni della vita contro sé stessa. Insomma, è come se la pandemia avesse posto, in una condizione storica inedita, una domanda cui non possiamo sottrarci ed alla quale tocca solo a noi rispondere, posti di fronte ad un bivio: con quale bagaglio concettuale intendiamo affrontare la traversata di una stagione che, nei prossimi decenni (?), potrebbe decidere la concezione di sé stessa, della vita e della storia che l’umanità è chiamata a rielaborare?

Viviamo, infatti, una fase irta di svolte epocali che, nel loro insieme, si riassumono in una questione etico-antropologica che va alle radici di ciò che è più  autenticamente umano. Un quesito che l’umanità rivolge a se stessa, come volesse sfidarsi, quasi fosse presa da stupore,  sorpresa e, nel contempo, intimidita da quelle  potenzialità che va via via scoprendo e le mostrano la ricchezza perfino impensabile che pur le appartiene.

Prendiamo le mosse – e vale ovviamente anche per la politica e per le responsabilità che le competono, anzitutto nel novero delle cosiddette questioni “eticamente sensibili” – da una visione aperta della vita, concepita come un dono di cui essere grati e da donare a sua volta o piuttosto fatta propria secondo un arroccamento solipsistico che si chiude a riccio su di sé?

Probabilmente a questa domanda preliminare che vale per tutti – credenti e non – ogni cultura, soprattutto laddove intenda suggerire un impegno politico che ad essa si rifaccia, dovrebbe cercare come si possa dare una risposta schietta, che non sia viziata da reminiscenze ideologiche che non macinano più.

Domenico Galbiati

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