L’Unione Europea, sorta originariamente come area commerciale comune, è oggi un edificio sostanzialmente diplomatico con alcune leve finanziarie e una unione monetaria malconcepita. Ciò non toglie che sia proprio in questa arena che si giocano oggi – nel pieno dell’epidemia – i destini del nostro Paese: del benessere di milioni di famiglie, dell’Italia produttiva, forse della nostra democrazia.

Non è difficile identificare e denunciare i difetti dell’UE: esiste ormai una letteratura specialistica ampiamente consolidata (fra i tanti, Mundell e Stiglitz) sulle asimmetrie e gli squilibri dell’Unione e soprattutto dell’Eurozona.

Ad esempio, vi è una evidente fragilità dell’area economica euro di fronte a situazioni di crisi economico-finanziaria, già ampiamente dimostrata a seguito degli eventi del 2007-2009. Ne segnalo uno che – dal nostro osservatorio nazionale – è particolarmente nevralgico: il debito pubblico rispetto al PIL dei singoli paesi è molto differenziato. Probabilmente andava equiparato prima di dare avvio all’unione monetaria. Si pensò invece di introdurre solo un “obiettivo di convergenza del parametro debito-PIL” (60%) nell’aspettativa che la complessiva convergenza fra le economie – auspicata e attesa fiduciosamente come conseguenza dell’introduzione dell’euro – spingesse verso la convergenza anche dei vari debiti pubblici.

Ma non è andata così. I divari fra le economie non sono andati riducendosi, ma al contrario: i Paesi con debito pubblico maggiore devono ricorrere a politiche sempre più restrittive, sotto la minaccia di manovre speculative ai loro danni (innalzamento dello spread). E nonostante questo non riescono a ridurre il loro debito perché l’economia è depressa. Ma questa difficoltà è accentuata dal fatto che il diverso costo del denaro nei vari paesi membri accresce ancora di più le divergenze fra le economie reali poiché danneggia le imprese dei paesi a più alto debito rendendole meno competitive: è un ciclo economico-finanziario ben noto agli economisti come ciclo di Frenkel. Il suo effetto prociclico in caso di crisi di liquidità, come quella innestata nel 2007, è micidiale. Noi ne siamo usciti a pezzi, e non per nostri demeriti.

È ovvio che – dal nostro punto di vista di paese indebitato – le cose non potranno che peggiorare con tutto quello che si profila e non hanno tutti i torti coloro che dicono che questo trend (unito ai vincoli del patto di stabilità) rende il percorso di risanamento del debito italiano ormai per noi impossibile.

Ma – a monte – c’è una più grande fragilità della costruzione europea: una moneta unica senza strumenti efficaci di politica fiscale comune. Cioè, non c’è nessuno strumento per correggere queste distorsioni. Perché? Lo vedremo fra poco.

Prima però soffermiamoci sulla divaricazione che – con questi assetti –  si sta producendo in area euro fra i livelli di benessere. Consiglio, in proposito, di prendere visione di uno studio abbastanza significativo della Banca d’Italia che ha analizzato i dati considerando l’area euro e la UE a 27 come se fossero uno stato unitario composto da differenti regioni: A. Brandolini e A. Rosolia, The distribution of European well-being among Europeans (aprile 2019 CLICCA QUI )

Da questo studio (ma suppongo ce ne siano molti altri) risulta evidente come sia l’introduzione dell’euro (2002), sia la crisi finanziaria del 2007-2009 abbiano avuto come effetto un innalzamento delle diseguaglianze fra aree geografiche[1]. Oggi il divario è enorme e non solo perché noi siamo stati spendaccioni, ma anche perché questa Europa conviene (e molto) alla Germania che oggi può pensare anche di superare brillantemente la crisi del Coronavirus, grazie ai surplus accumulati e di varare un piano poderoso di stimolo fiscale, senza avere nessun bisogno dell’Europa e senza chiedere alcun permesso a nessuno.

Veniamo poi ad un altro punto nevralgico della costruzione europea: la sua governance. Questa è sostanzialmente intergovernativa e non comunitaria. Per di più con regole che impongono spesso l’unanimità. Grande è quindi è il potere di veto dei singoli Stati.

In questo momento lo Stato con maggiore forza economica è la Germania: Berlino è poi riuscita a creare una rete di alleanze basata su affinità – non solo economiche – con i paesi nordici. E’ a questo soggetto (e non ai “burocrati di Bruxelles”, come dice certa facile propaganda) che vanno riferite tutte le resistenze a procedere verso la costruzione della UE che vorremmo, più efficiente, più credibile, più equa, più solidale.

Ideologia o geopolitica?

Oggi è il governo tedesco che esercita la maggiore resistenza rispetto alle modifiche istituzionali che sarebbero necessarie all’UE per rafforzarla (anche) come area economica.

Perché Berlino ha paura di un diverso assetto?

  1. non si fida (antropologicamente) dei partner dell’area mediterranea;
  2. l’attuale assetto le garantisce un’assoluta egemonia economico-produttiva, prima dell’euro impensabile rispetto a concorrenti come l’Italia.

Quindi il conflitto non è fra europeisti e sovranisti. Perché le decisioni importanti non le prende il Parlamento Europeo, l’unico organo comunitario nel quale si contrappongono partiti politici (e quindi ideologie) transnazionali (appunto “sovranisti” e europeisti”) e dove – fra l’altro – sono in larga maggioranza gli “europeisti”. Quest’aspetto ideologico è solo fuorviante. In Italia, poi, ha assunto – come vedremo – la fisionomia di uno scontro fra sovranismo e “dottrina del vincolo esterno”. Da mettere al più presto – come vedremo – entrambi in soffitta.

La faglia è invece fra governi, cioè fra Stati (o coalizioni di Stati) e quindi fra economie, mentalità, stili di vita, opinioni pubbliche, storie e memorie. Si tratta quindi di un conflitto geopolitico e non ideologico.

Continuare a invocare (attaccando rabbiosamente o esaltando) il sovranismo[2] alimenta equivoci su questo punto: alimenta un conflitto ideologico (anche interno) di cui hanno bisogno solo politici di mezza tacca (cioè propagandisti) e nasconde, invece, quello vero: quello geopolitico. Un’opinione pubblica informata non può cadere in questo genere di equivoci.

Se il tema è geopolitico, esso va trattato come tale.

C’è un bellissimo articolo – nel numero in edicola di Limes – di George Friedman, un analista internazionale (a mio parere) fra i più raffinati oggi: “Geopolitica profonda” che consiglio vivamente. Esso spiega in poche pagine – meglio di interi volumi – cos’è un approccio geopolitico ai temi internazionali – la sua complessità, la sua vischiosità – e quanto alto il rischio di banalizzazioni (“occorre convincere la Germania”, ecc. ecc.). Le realtà geopolitiche non si “convincono”. E neanche si lasciano vincere dalla pietà per un’epidemia.

Nel confronto fra Europa nordica (sostanzialmente area germanica) e Europa mediterranea entrano in gioco fattori profondi che occorrerebbe conoscere e considerare attentamente per comprendere e misurare le difficoltà della partita europea.

Perché si parla di Eurobond da oltre dieci anni – quando furono lanciati da Giulio Tremonti[3] – senza che se ne faccia nulla? Non siamo stati abbastanza bravi a “convincere la Germania”? Non credo.

Il motivo è che gli eurobond – al contrario del MES che è semplicemente una polizza assicurativa (molto salata, ma niente di più)[4] – possono rappresentare il primo pezzo (dipende dalla loro consistenza, dalle garanzie, dalle finalità ecc.) di una politica fiscale comune (cioè indipendente dagli Stati). Questo (e non il MES) è un grande tema geopolitico che muterebbe l’attuale equilibrio. Perché, se fatto sul serio, legherebbe i destini di chi stipula il patto e richiederebbe mutamenti istituzionali.

I paesi nordici non sono disposti a fare questo passo, quindi preferiscono lasciare la costruzione europea sospesa per i due motivi detti sopra (fra l’altro, alcuni come i Paesi Bassi operano come veri e propri “paradisi fiscali” non fuori ma all’interno dell’UE).

Personalmente (e voglio essere ottimista), ritengo che il motivo principale di questa resistenza sia il primo di quei due motivi indicati sopra: non si fidano (antropologicamente) dei partner mediterranei.

Allora, la vera partita europea non sono né il MES, né l’allentamento del patto di stabilità, né il Quantitative Easing.

Reggeranno questa UE e questo euro al corona virus?

Sappiamo che i casi sono 2. O non se ne farà niente e allora l’Italia sarà abbandonata al proprio destino (con conseguenze rischiosissime per tutto l’edificio; ma non per la Germania) o si riuscirà almeno ad innescare questo processo della politica fiscale comune.

La partita sulla politica fiscale comune è tutta geopolitica e quindi è inutile parlarne fra economisti. Infatti, poiché il salto quantico verso una nuova unità politica (un’Europa dotata di uno strumento comune di politica fiscale) è di natura geopolitica, esso richiede un previo chiarimento in merito alle élites di comando. Non c’è comunità politica senza élites di comando.

La Germania oggi avanza sotterraneamente (con qualche fondatezza ma anche con insufficiente realismo) la pretesa di fornire lei – da sola – questa élite. E’ la condizione che – sottotraccia viene pretesa. Insomma, la Germania non vuole certo rinunciare ai suoi surplus (che le consentiranno oggi di fronteggiare la crisi) in cambio di nulla!

Finché non si scioglieranno questi nodi l’Italia non avrà nulla dalla cd “Europa”. Nulla di ciò che oggi – con sempre maggiore urgenza – le servirebbe: uno strumento concreto che le consenta di fare anche lei una politica di stimolo e salvarsi dallo spettro della depressione. Il MES non è ciò che ci serve, ma l’esatto contrario.

Ma il tema non riguarda solo noi. Noi insieme a Francia e Spagna dovremmo essere in grado di fare della questione Eurobond il tavolo in cui l’Europa mediterranea stringe un nuovo patto con l’Europa nordica per la definizione delle comuni nuove regole del gioco (regole che dovranno riflettere la distribuzione dei pesi delle rispettive rappresentanze nell’élite di comando). Nell’interesse di tutti. Dovremmo essere così bravi da far valere tutto il nostro peso economico, demografico, geografico, culturale e militare (Francia) e – allo stesso tempo – rassicurare la Germania, riconoscere la forza economica e la legittimità di una sua aspirazione a fornire una parte significativa della élite di comando. Dovremmo, in altri termini, ridefinire radicalmente i termini di quell’intesa che garantisce il funzionamento effettivo della costruzione europea dal 1992, quando si puntò sull’unificazione monetaria, lasciando da parte quella militare, diplomatica e fiscale. Ci vogliono statisti (e non economisti) per fare cose del genere. Se Macron ci provasse, chi risponderebbe a Madrid e Roma?

Ce la faremo?

È una partita difficilissima. Se non ce la faremo non vedo altro – per l’Italia – che la troika, cioè il ricorso al MES (magari ammantato di chiacchiere) e quindi la fine greca. Sarebbe l’esasperazione di quei meccanismi restrittivi che hanno impoverito l’Italia dal 2002 ad oggi, facendone un paese socialmente ed economicamente prostrato.

Credo che questa volta non basterà la patrimoniale né i tagli massicci a stipendi e pensioni, perché gli investitori ci terranno comunque sotto ricatto con lo spread.

Personalmente, non ho molta fiducia che i Paesi nordici accettino oggi di percorrere la strada della trattativa seria. Non credo che la forza della solidarietà possa prevalere sulla combinazione di interessi immediati e deficit di immaginazione politica (che caratterizza tutte le élites politiche in questa fase).

Ma sono certo che, se vogliamo almeno tentare di salvare l’Unione europea, evitando una frattura definitiva tra Stati latini e Stati germanici, l’Italia deve giocare fino in fondo la propria parte.

Ciò significa – in primo luogo – liberarci, nel nostro Paese, dell’accettazione acritica delle tesi di Berlino: su un piano più generale, possiamo affermare che la dottrina del “vincolo esterno”, che è stata la sola ideologia di riferimento delle classi dirigenti italiane della Seconda repubblica, soprattutto del centro-sinistra, si è rivelata del tutto fallimentare, oltre che falsa. Essa non pone con chiarezza il tema e confonde fra responsabilità nostre (e solo nostre) nel non aver fatto le necessarie riforme con le vere cause del blocco del processo di costruzione europea. Infatti:

  1. anche se avessimo fatto tutte le riforme immaginabili i paesi nordici avrebbero avuto l’identico interesse a mantenere lo status quo;
  2. il nostro debito pubblico sta aumentando (senza controllo) non solo perché non siamo abbastanza virtuosi ma anche perché ormai siamo intrappolati in un meccanismo diabolico;
  3. la geopolitica è realismo e, se non si può pretendere che la Germania smetta di essere la Germania (B. Croce), non si può neanche gettare la croce addosso all’Italia perché continua ad essere l’Italia. Occorre trovare un punto d’incontro.

Non diventiamo più europeisti sposando le tesi di Berlino (facciamo solo autogol), ma definendo e coltivando un nuovo europeismo responsabile, che faccia tesoro degli errori del passato, partendo dalla consapevolezza che fra le altre cose – come ci ricordano (questa volta giustamente) i paesi nordici, – vada allestita una seria strategia per le riforme e per la diminuzione del debito ma che tale strategia – oggi – non può che avere il medio termine come riferimento.

Per farcela dovremmo in Italia una leadership molto più forte dell’attuale e in Italia, Spagna e Francia uomini all’altezza del compito. Non dirò De Gasperi, Adenauer e Schumann, ma neanche uomini della generazione dell’”uno vale uno”.

Messi così, non credo andremo molto lontano.

Enrico Seta

[1] Si legge a pag. 27 del Report: “the economic turmoil around 2010 pushed inequality up, mainly because of the divergence between the core and the periphery of the EA (Euro Area) […] the EA income inequality has tended to grow as integration has deepened and in particular since the adoption of the common currency”.

[2] Se per “sovranismo” si intende lo slogan “usciamo dall’UE o dall’euro” o il più recente “faremo da soli” (Conte ieri a Bruxelles), beh, queste sono parole a uso tattico alle quali non possono seguire – per ora – fatti concreti (che avrebbero esiti molto peggiori per noi). Il sovranismo, invece, come asse di alleanza internazionale è – per sua natura – impossibile poiché i vari sovranismi si annullano vicendevolmente: una barzelletta.

[3] Vedi questo articolo della Voce (2008) che riporta uno dei primi commenti alla proposta tremontiana degli Eurobond https://www.lavoce.info/archives/24903/lagenda-europeista-del-nuovo-governo/

[4] Come ogni polizza assicurativa è molto importante conoscerne e comprenderne attentamente tutte le clausole.

About Author