Dagli schermi televisivi e da qualunque rete, ad ogni ora del giorno, assistiamo a una triangolazione tra politica, scienza e pubblica opinione. Quest’ultima nella duplice veste da una parte degli opinionisti, esperti ed intellettuali di varia estrazione e giornalisti. Si tratta, anche qui, di un dialogo e di un confronto inedito, almeno nella forma diffusa e coinvolgente che stiamo sperimentando per la prima volta. Ed anche su questo fronte c’è da riflettere se vogliamo capitalizzare l’esperienza della pandemia.
Sul piano clinico e scientifico non abbiamo nulla da imparare da nessuno degli altri Paesi. A cominciare dal campo delle malattie infettive. Accanto al sistema territoriale della medicina di base – e non va dimenticato che i medici di famiglia, con gli ospedalieri dei “Pronto Soccorso”, sono pur sempre la linea di primo ed immediato impatto con il
virus; accanto al classico sistema ospedaliero di alto livello specialistico ed agli istituti clinicizzati delle facoltà mediche, il nostro servizio sanitario nazionale può vantare il sistema degli IRCCS (Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico), di cui fanno parte, ad esempio, anche lo Spallanzani ed il San Matteo di Pavia, per citare solo due delle strutture più avanzate e più esposte sul fronte dell’epidemia.
Si tratta di un insieme articolato di presidi e di competenze del tutto originale e tipico del nostro Paese che risale alla preveggente riforma sanitaria generale, la legge 833 del 1978. Sono 51 ospedali di alta specializzazione – pubblici e privati – che coprono l’intera gamma delle specialità mediche, molti monospecialistici, altri come “policlinici”, ed hanno il compito istituzionale di sviluppare congiuntamente ed in stretta, reciproca connessione, attività di ricerca scientifica ed attività clinica. L’ eccellenza di quest’ultima, infatti, oggi – in linea generale e, cioè, a prescindere dall’attuale momento – è strettamente correlata alla capacità di ricerca in campo bio-medico e bio-ingegneristico.
Noi italiani raramente, o quasi mai, siamo inclini a parlare bene di noi stessi ed, anzi, siamo sempre convinti che l’erba del vicino sia sempre la più verde. Anche a fronte di questioni molto delicate – ad esempio, circa temi di rilievo etico – spesso molti di noi invocano l’opportunità, quasi l’obbligo, di adeguarci agli altri Paesi europei, a prescindere da ogni altra considerazione.
Per questo fa piacere che, almeno in un’occasione straordinaria come questa, molte voci spontanee si alzino a riconoscere che il nostro sistema sanitario è il migliore tra tutti, per quanto, percentualmentete alla complessiva spesa pubblica, assorba meno risorse di quanto non avvenga negli altri Paesi dell’Unione Europea. Pur in una condizione al limite del collasso, il nostro sistema sanitario per ora resiste ad un peso insopportabile e raccoglie i frutti di una scelta lungimirante e mai smentita che, fin dagli anni ’70, ci ha condotto alla creazione di un sistema a copertura universalistica della domanda di salute, garantendo ogni cittadino, anzi chiunque sia presente sul nostro territorio nazionale.
A sua volta, frutto di una cultura umanistica, fondata sul valore originario ed irriducibile della persona, tale per cui un pensiero – anzi, francamente, una turpe idiozia – come quello di Boris Johnson da noi era ed è semplicemente impensabile. Un pensiero “razzista” nei confronti dei suoi stessi concittadini.
Ovviamente, non perchè accampi differenze razziali, bensì perchè fa davvero propria – ma in senso generale, ben oltre la questione immunitaria – la logica del “gregge”, in vista di una sorta di “selezione darwiniana” procurata e di massa. Per gli inglesi, dunque, il primato attiene alla nazione o allo Stato ed alla sua “potenza”?
Teniamoci stretta la nostra illuminata Costituzione. In particolare, laddove afferma che lo Stato non fonda, ma semplicemente “riconosce” il valore originario ed incondizionato della persona. Noi, insomma, guardiamo, piuttosto che a Darwin, anzi alla involuzione ideologica della sua dottrina scientifica, al Buon Pastore della parabola evangelica che va alla ricerca della centesima pecorella, l’ultima, per quanto sia l’unica ad essere smarrita. Ma forse non c’è da sorprendersi più di tanto, dato che nei Paesi di cultura anglosassone, non sono mancati, in particolare, nei primi decenni del XX secolo, orribili programmi eugenetici.
In definitiva, però, il cosiddetto “secolo breve”, teatro di due devastanti conflitti mondiali e di totalitarismi criminali, è stato anche una stagione di grandi conquiste sociali. E la natura universalista del nostro sistema sanitario è tra queste.
Del resto, non risponde solo ad una motivazione di ordine morale e giuridico, ad un fine di equità e di giustizia sociale, in definitiva ad un obiettivo di libertà, ma anche ad una ragione strettamente di ordine tecnico-sanitario che dobbiamo augurarci non venga messa in piena luce il giorno in cui il virus dovesse dilagare in Paesi dotati di un apparato sanitario fondato su un sistema assicurativo privato.
Domenico Galbiati

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