Quando c’è un tesoro, c’è sempre di mezzo una mappa, come insegna il capolavoro di R.L. Stevenson che molti di noi hanno letto da ragazzini.

Senonché, dobbiamo distogliere lo sguardo dal luccichio dei forzieri ricolmi di gemme, d’oro e d’argento del tesoretto europeo per concentrarci sulla mappa che Draghi ci ha indicato: riforma della Pubblica Amministrazione e della Giustizia, del fisco e della concorrenza. Il “Recovery plan” non è l’albero della cuccagna.

Il nostro sistema politico-istituzionale è inchiodato in una contrapposizione  bipolare obbligata che di necessità esita in una permanente campagna elettorale, così quotidianamente incombente da imporsi addirittura all’interno di ciascuno dei due poli. A dispetto della presunta “unità nazionale”.

Ne consegue che il “maggioritario”, sotto la coltre di una apparente semplificazione, frammenta e frantuma le relazioni politiche tra gli attuali attori del sistema, al punto che, anziché dar luogo a quel regime dell’alternanza che, secondo gli auspici dei suoi promotori, avrebbe dovuto portare a compimento la nostra democrazia difficile, ci ha posto nella condizione di invocare, ancora una volta, non appena si tratti di affrontare un cammino più impervio, l'”uomo del destino” e che si chiami Draghi se, per un verso, ci rincuora, per altro nulla muta in ordine al difetto avvilente ed  intrinseco ad un apparato politico-istituzionale che, per forza di cose,  deve investire sulla “personalizzazione” della politica e concepisce la governabilità come un cappio gettato al collo della “sovranità’”, la quale, per quanto appartenga al popolo, viene preventivamente circoscritta e blindata nell’alveo intrascendibile dei due poli.

La domanda è se questo ordine di rapporti sia in grado o meno di reggere una sfida che presenta alcune caratteristiche desuete e meritevoli di attenzione. Anzitutto, si tratta di avviare un cammino da cui non si sfugge scantonando o rinviando.

I nodi da affrontare sono strutturali e, per quanto possano non corrispondere alle corde del nostro recalcitrante sentire, sono di fatto imposti dall’ Europa, per cui, per un verso o per l’altro, dobbiamo superare la nostra inerzia e deciderci, una buona volta, a prendere il toro per le corna.

In secondo luogo, abbiamo di fronte un percorso destinato a protrarsi intanto – salvo ulteriori appendici che, pare, Macron abbia già invocato – per almeno cinque anni. E, dunque, per giunta, a cavallo di due legislature. Il che significa che il programma della prossima, chiunque prevalga  nella contesa elettorale, e’, in gran parte, già determinato dal PNRR.

D’ altronde, se per un verso l’ unità nazionale dovrebbe esaltare l’attitudine delle forze politiche ad una mediazione di alto profilo, almeno fin qui, la prova provata dell’attuale governo  segnala che i punti di intesa e di raccordo tra le forze che lo sostengono  sono stati in carico, soprattutto, alla personale autorevolezza del Presidente del Consiglio, altresì corroborata dal compito che il Quirinale gli ha commissionato.

Per parte loro, le forze di maggioranza, anziché affrontare le questioni aperte secondo uno spirito di conciliazione che corrisponda all’intento unitario ed all’interesse generale del Paese, si potrebbe dire, con un brutto neologismo, che le “partitizzano”, cioè le declinano piuttosto in funzione dell’interesse particolare di ciascuna.

Bisogna, peraltro, distinguere tra “compromesso” – che si può risolvere in un sostanziale aggiustamento aritmetico tra le parti – e “mediazione”, la quale non può prescindere da una qualche corrispondenza tra gli attori in gioco, almeno sul piano di una pur limitata condivisione  di un qualche orizzonte comune, nel senso di un reciproco riconoscimento e di una condivisa legittimazione, sulla cui base raggiungere quel punto di raccordo sufficientemente alto da poter ricomprendere, in un solo sguardo, almeno ciò che è essenziale nelle pur distanziate posizioni a confronto.

Dentro l’attuale architettura di rapporti, c’è posto per la mediazione? Oppure no? Non illudiamoci che una pioggia battente di miliardi possa oliare i rapporti politici tra le forze in campo quel tanto da ottenere una articolazione, se non indolore, almeno fluida e scorrevole del processo di “trasformazione” di cui il Paese ha bisogno.

Quando una decisione, un evento, una qualunque iniziativa, a maggior ragione un indirizzo o una determinazione  di ordine politico sono suscettibili di proiettare i loro effetti talmente a lungo termine da farsi addirittura carico di delineare una prospettiva storica – il “destino” del Paese ed il suo  “ruolo internazionale” come afferma Draghi – la responsabilità di chi governa e decide diventa straordinariamente pregnante, nella misura in cui ogni errore, ogni sbavatura posta nella fase d’avvio del processo è destinata ad imprimergli una distorsione irrimediabile.

Per questo dobbiamo renderci conto che le società a sviluppo maturo, come la nostra, sono sistemi aperti, plurali, meno stratificati di quanto fosse in altri tempi, più flessibili che non rigidi, articolati su più fronti e su equilibri perennemente in fieri, cosicché una semplice sfumatura può alludere ad una variazione sul tema che investe un intero contesto ed introduce ad una nuova visione, ricchi di condizioni nelle cui pieghe si nascondono spesso, ad un tempo, nuove potenzialità  e corrispondenti equivoci.

Sistemi che, in nessun modo possono essere ricondotti ad una postura ideologica, né essere governati deducendo, giù per li rami, da un pacchetto di pochi assiomi, apoditticamente assunti, una serie a cascata di determinazioni che quanto più si preoccupano di rispettare l’impianto originario, tanto più perdono contatto con la realtà. Come sta succedendo agli attori del nostro attuale sistema politico, incaprettati negli schemi della loro reciproca convenienza bipolare.

I sistemi aperti si possono governare solo a costo di rispettarne la complessità, garantendo le condizioni perché possano esprimere, secondo le regole di uno schietto realismo, la loro carica di creatività innovativa e, dunque, attraverso modalità di carattere induttivo, che, riconoscendo ovviamente capisaldi valoriali saldi, consentano di imparare dall’esperienza.

Per questo anche nel campo della rappresentanza politica, anziché costruire case-matte circoscritte e protette in armi, è necessario che si spalanchino porte e finestre ed entri aria fresca in un ambiente chiuso.

Domenico Galbiati

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