Dal 30 novembre 2019, giorno in cui presentammo ufficialmente a Roma, il Manifesto, dal quale prese avvio la fase culminata nella fondazione del partito, ad oggi sono trascorsi quasi cinque anni (CLICCA QUI). Se consideriamo l’accelerazione temporale in cui viviamo, non è cosa da poco. E, per rendersene conto, basterebbe ripercorrere la successione di eventi attraverso cui siamo passati da allora ad oggi.

Il Manifesto rimane il nostro testo di riferimento e va tenuto fermo, in primo luogo, il concetto di “trasformazione”, caro a Stefano Zamagni, che, altresì, denuncia l’insufficienza della classica e tradizionale cultura riformista, a fronte delle prove che ci attendono.

Ora si tratta di aprire una fase nuova della nostra iniziativa, diretta a costruire il “partito di programma”, come lo intendeva Don Sturzo. Che sosteneva come il programma sia o debba essere qualcosa che, anzitutto, “si vive”.
Dunque, pensiero e vita, vita e pensiero stanno assieme, fanno un tutt’uno, cosicché il programma, se non è vissuto, neppure può essere pensato. Il che significa – senza cadere in un’accezione moralistica della politica – che, al di fuori della tensione etica che ne rappresenta l’effettiva sorgente, non si dà programma politico. Affermazione coraggiosa, audace e di rara forza, addirittura spericolata, soprattutto se messa a fronte dello scarso “appeal” di cui gode oggi la “militanza” in un partito. Affermazione che, ai giorni nostri, si dovrebbe far risuonare, in modo del tutto particolare, negli ambienti cattolici, perché da sola basta a far giustizia di tanti sottili distinguo tra formazione delle coscienze e personale responsabilizzazione nell’“agone” politico Concepito, quest’ultimo, non come un incidentale supplemento al proprio quotidiano compito professionale, qualcosa che si aggiunga, ma restandone a latere, alle “normali” preoccupazioni della vita, bensì un versante su cui ne va della vita. Della propria e di quella altrui.

Difatti – ma oggi ben difficilmente viene compreso – rispetto ai gesti della cultura la cui area di piu’ immediata risonanza concerne, anzitutto coloro che concorrono ad una comune riflessione, i gesti della politica, piccoli o grandi che siano, dato che ricadono sull’intera collettività, sono, in ogni caso, sovraccarichi di responsabilità morale.

Il programma “si vive” perché non discende dall’empireo di una astratta teorizzazione intellettuale, né risponde agli stilemi di una ideologia, non è il portato di un pensiero preordinato. Nasce bensì dalla “condizione popolare” di una comunità, attesta le domande “sofferte” che sorgono dalla sua concreta esperienza esistenziale, dà conto delle sue speranze, dà forma alle sue legittime attese. Detto altrimenti – e dovrebbe valere anche per noi, ma forse rischiamo di cadere nel girone infernale dell’utopia – si dovrebbe riscoprire ed alimentare interiormente la straordinaria dimensione etica dell’impegno politico, il ruolo di tessuto connettivo che le compete in ogni costrutto programmatico, per evitare che la struttura di un progetto e la elaborazione dei contenuti che vi concorrono altro non sia se non un freddo almanaccare temi ed argomenti che della politica non sanno dare se non un’algida declinazione tecnocratica.

Domenico Galbiati

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