Nel mio primo intervento su questo sito elencando alcuni possibili temi di approfondimento successivo (anche da parte mia, è meglio da parte di altri più capaci), tra l’altro mi chiedevo: “sulla vitalità del paese – la natalità – deve, può fare qualcosa la politica? ( CLICCA QUI )”.
Negli ultimi mesi l’impatto di Covid 19 e la crisi economica e sociale, che colpisce più persone del virus, e colpisce famiglie, gruppi sociali e reti, ha accentuato il problema. L’ISTAT ne ha segnalato l’aggravarsi, con un record negativo annuale dopo l’altro e la facile previsione che il 2020 superi, al ribasso, il 2019, e che il 2021 proceda in discesa. Trovo però molto arduo accostarmi a questo tema.
Fin da quando ormai quaranta anni fa arrivavano le notizie sulla politica del figlio unico in Cina, politica feroce verso le persone e non basta dire contro i diritti umani, o quando si aveva notizie di politiche di segno opposto, ho sempre pensato che il potere politico non deve mai varcare la soglia del santuario in cui una famiglia – una coppia – pondera i desideri e i timori, decide se, quanto, partecipare al “crescete e moltiplicatevi” (ci sono tanti linguaggi, ma il mio è questo). Non riesco però a immaginare una classe dirigente di tale ignavia da non osservare, non impegnarsi a comprendere, non interrogarsi sui doveri fattibili, quando la comunità di cui è al servizio cresce o decresce o muta la sua composizione in modo da incidere non solo sul futuro remoto, ma anche su quello prossimo e specie sul presente stesso.
Che cosa si può fare allora, senza oltrepassare quella soglia? Innanzitutto osservare, cercare di capire. Nel 1919 sono nati 335000 bambini, il minimo dal 1861. Per l’anno appena finito e per il 2021 si stimano cali ulteriori. I fenomeni che si registravano in certe notti di blackout elettrico newyorkese non ci sono più. Altre forze sono in azione nelle case del lockdown.
Il picco massimo delle nascite, in Italia, risale al 1964, anno rilevante per vari aspetti, nel quale erano nati 1.035.000 bambini. Su una popolazione accresciuta registriamo circa il 60% di bambini in meno, nonostante l’apporto dei figli di immigrati. Siamo già in via di estinzione? I cambiamenti di rotta sono possibili. Ma quello che sta avvenendo non va sottovalutato. Tra 25 anni ci saranno il 60% in meno di possibili genitori, rispetto a quelli che c’erano nel 1989 (25 anni dopo il 1964).
Gli impatti sociali ed economici arrivano prima. Per esempio sui mercati di prodotti per l’infanzia, sul dimensionamento delle scuole, e poi su quanti si affacceranno tra venti anni al mercato del lavoro. Qualcuno potrebbe dire che così non ci saranno disoccupati. Ma non è così che funziona. Corre una vulgata, che le donne desiderano avere figli, ma per le difficoltà economiche e organizzative (mancanza di servizi), devono rinviare fino a quando il rinvio diventa rinuncia, o diventa un figlio unico invece di diversi figli. Intanto, in questa lettura si tace sul desiderio di paternità dei potenziali padri, una delle tante manifestazioni di eclisse del padre nota in questa epoca, e anche di debolezza del maschile.
Anche le famiglie di immigrati convergono più rapidamente di quanto ci si attenderebbe verso i modelli italiani, sia che dipenda dalla forza dei limiti organizzativi sia che dipenda dalla pervasività di modelli culturali. Dunque, oltre ad osservare, questa è una cosa che la politica deve fare, che non è promuovere o incentivare, ma rimuovere difficoltà e parificare opportunità…
Resta il fatto che una volta l’espressione bomba demografica indicava i timori legati a una crescita troppo rapida, mentre ora viene usata per indicare il collasso implosivo di una società che si riduce in valori assoluti e si squilibra in prevalenza di anziani. Nei paesi in via di sviluppo permane alta la natalità. Tra i campioni della denatalità (quelli nei quali le nascite sono largamente al di sotto del tasso necessario ad assicurare la stabilità della popolazione) ci sono i primi della classe dell’economia: statunitensi, sudcoreani, giapponesi e l’UE.
In Unione Europea la popolazione nel 2019 è cresciuta pochissimo e solo per effetto dell’immigrazione. Le nascite sono state 4,2 ml rispetto ai 4,7 dell’anno precedente e sono meno dei decessi.
Dunque la natalità non è figlia della ricchezza. Si sa. Ma si può aggiungere ora che la denatalità è figlia delle crisi, dei livelli di benessere minacciati, ed è forse la prima vittima delle decrescite.
(Verrebbe da pensare che i fautori della decrescita vivano un cupio dissolvi. Eppure la soluzione non è la crescita, ma semmai lo sviluppo umano integrale).
Ma ritorno al mio stretto sentiero. C’è da noi una correlazione tra livello del reddito procapite, qualità della vita, disponibilità di servizi e natalità? La prima provincia per natalità in Italia è Bolzano, seguita da Napoli, (e poi Catania, Palermo, Crotone, Ragusa, Caserta, Reggio Calabria,). Trento è al nono posto, poi Verona all’undicesimo. Dunque fattori diversi si combinano in esiti che non danno indicazioni univoche.
La politica però questo può farlo: agire su quei fattori che possono determinare una resistenza: operare sulla fiscalità familiare, a favore della occupazione femminile e per la effettiva parità salariale, generalizzare l’offerta degli asili nido e in generale adottare politiche e misure favorevoli alle famiglie e ai bambini. Consentire alle donne di raggiungere stabilità sopra i venti e non sopra i quaranta.
Tuttavia – ed è il terzo punto – mi chiedo: nell’atteggiamento generativo di una coppia contano di più i servizi che si vedono guardando dalla finestra nella strada sotto casa, o il paesaggio anche lontano? È solo una opinione, ma penso che conti di più il senso della prospettiva, non il poter generare senza fatiche, ma la coscienza che le fatiche si inseriscono in un percorso vitale, vanno a far parte di una fecondità complessiva della comunità in cui si vive (delle comunità concentriche: quella delle famiglie e degli amici, della città, della nazione). Decide lo slancio della vita, non la paralizzante pretesa di calcolarne le variabili e controllarne le incognite.
Ed è chiaro che la politica può anche inviare questo messaggio, soprattutto con le decisioni e con le azioni, con la prospettiva strategica che viene dichiarata e concretizzata, può indicare la strada davanti, della casa, della scuola, del lavoro, della sanità….
Ma allora il Recovery plan per Nest Generation EU non dovrebbe servire soprattutto a questo? A condividere la visione di dove vogliamo andare, come vogliamo diventare, quali virtù vogliamo esaltare, quali difetti correggere, quali talenti impiegare più coraggiosamente? Se non serve a questo la più grande occasione di investimenti da alcuni decenni a questa parte, e per alcuni decenni a venire, a che serve?
Guardiamoli dall’alto i nostri progetti, perché il de minimis si può sempre trovare un altro modo per occuparsene.
Vincenzo Mannino

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