Vari amici, davvero sconcertati, si chiedono, e chiedono, quale sia la politica estera del Governo Meloni. Lo sconcerto è dovuto soprattutto alla evidente divaricazione tra le voci che emergono nella maggioranza. Soprattutto guardando alla politica estera, solo Giorgia Meloni può continuare a dipingere la sua coalizione come tetragona e animata da piena condivisione. Il problema non viene solo da Salvini che prova a rendere sempre più ridotta la coperta della Presidente del consiglio nel chiaro tentativo di erodere i voti della destra più radicale, che pure alberga e resiste tra le stesse fila dei più vicini al mondo della premier. Il generale Vannacci e Gianni Alemanno lo stanno plasticamente a dimostrare.

Il fatto è che, arrivata a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha dovuto ripudiare, e letteralmente rovesciare, i suoi pregressi filo puntinismo e il trampismo, così come l’ostilità giocata sempre lancia in resta contro Europa e l’Euro. Ha dovuto,  evitare di innalzare muri o organizzare blocchi navali per fermare i migranti. Si è attestata su di una via di mezzo qual è quella rappresentata dall’idea della loro deportazione in Albania o del loro contenimento in Tunisia. Due possibilità del tutto astratte e scarsamente percorribili. Non a caso si registra come, al momento, sia fallito il progetto impostato con la sponda sud del Mediterraneo e come quello albanese si confermi sforzo spropositato; per i costi, le difficoltà logistiche e le questioni di diritto, nazionali ed internazionali, che non si superano con la sola volontà, buona o cattiva che sia.

A Giorgia Meloni resta la carta dell’atlantismo. Ma con un filo americanismo di recente scoperta e che rappresenta un’inversione “ad U” rispetto alla lunga stagione filo Trump. Un atlantismo, comunque, che non può fermarsi alle sole dichiarazioni retoriche. Ha anche un costo, come ha appena ricordato a tutti gli europei il Presidente Joe Biden che, in queste ore, si vede bloccare dai repubblicani i finanziamenti per Ucraina e Israele. Sempre più, dunque, si pone il problema dell’impegno economico degli europei in campo militare. Ambigua anche la posizione sull’Ucraina visto che la galeotta telefonata con il finto rappresentante dell’Unione africana c’ha rivelato una Meloni “stanca” del sostegno a Zelensky. Poi, le dichiarazioni ufficiali sono evidentemente un’altra cosa. E ciò vale anche per le relazioni con il resto d’Europa. È così, mentre giornali e think thank compiacenti ce la presentano come una delle donne più potenti al mondo, è lei stessa a dirci, sempre nella galeotta telefonata di cui sopra, che “non le rispondono neppure al telefono”.

C’è da rendersi conto delle oggettive difficoltà in cui si trova la nostra Presidente del consiglio. Vorrebbe tanto liberarsi delle idee e del modello politico che ha coltivato nel corso degli anni d’opposizione e di quella patina estremista di destra che, a lungo, come per Salvini, l’ha vista barcamenarsi tra Putin e Trump.

È possibile che la Meloni attenda il 2024. Quello che Guido Puccio definisce l’anno delle grandi elezioni (CLICCA QUI). Prima, per l’appuntamento europeo grazie al quale potrebbe meglio definirsi l’equilibrio con gli alleati interni in termini di peso elettorale, in particolare con Salvini. Poi, per le elezioni americane. La conferma di Biden o la rivincita vittoriosa di Trump le aprirebbero scenari diversi. Nel primo caso, soprattutto se in Europa si consolidasse la cosiddetta maggioranza “Ursula”, le renderebbe più facile mollare Salvini al grido di “Roma val bene una messa”. Altrimenti, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, potrebbe provare a tornare ai vecchi amori, pur restando ancorata al processo europeo così come ha fatto dal 25 settembre 2022 in poi. E così siamo, anzi lei è, in una fase di attesa che, ovviamente, per chi non l’ama, è dipinta più con le sfumature dell’ambiguità e della doppiezza.

Il fatto vero è che la Meloni ha costantemente seguito, anche in politica estera, la regola che regge le parole palindrome, nel senso che prova a presentarsi come se quel che dice lo si potesse leggere in un verso e in un altro. In attesa di vederne la versione autentica.

Sembra chiaro che Salvini sfrutti la situazione per prendersi una più ampia libertà di manovra. La stessa che gli consentì di partecipare al Governo con i 5 Stelle all’indomani del voto del 2018 e, poi, partecipare persino al Governo Draghi. La stessa libertà che lo vede giocare il ruolo di mattatore a Firenze con le organizzazioni della destra più estrema europea mentre il suo Ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti, è forzatamente costretto a presenziare in una platea che costituisce la quinta essenza dell’opposizione a quella Europa con cui lui deve trattare quotidianamente a nome dell’intero Paese. Un ossigeno che serve anche a quel reticolo d’imprese del Nord che da decenni hanno nella Lega un punto importante di riferimento.

La libertà di manovra serve a Salvini, capo indiscusso del leghismo odierno, per tenere costantemente sulla corda Giorgia Meloni per provare a far esplodere le contraddizioni in cui la leader dei Fratelli d’Italia si è trovata paradossalmente avviluppata dopo la vittoria alle ultime elezioni. Non è facile oggi, soprattutto a fronte della complessità dello scenario europeo ed internazionale, anche solo a provare ad essere allo stesso tempo di governo e d’opposizione.

Rispetto a 100 anni fa la situazione, interna ed internazionale, è più complessa. Quello che ha maturato nel corso delle sue letture giovanili e forgiato la sua formazione potrebbe non esserle affatto sufficiente. Soprattutto nel prossimo futuro quando importanti scadenze economico – finanziarie, ed istituzionali, in ambito europeo renderanno sempre più complicato mantenere i piedi in più staffe.

Giancarlo Infante

 

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